LE  GROTTE  LAVICHE   ETNEE

Di Vincenzo CRIMI

 

L’Etna è stato definito un fantastico  laboratorio della natura dove si intrecciano storie umane, miti leggende, dove la vita delle sue creature animali e vegetali segue il suo percorso di naturale straordinarietà pari solo a se stessa.

Su tutto questo territorio, sino ad oggi sono state censite almeno 220 grotte di origine vulcanica. La loro formazione ha seguito di pari passo le manifestazioni eruttive del vulcano che attraverso le sue frequenti colate ha prodotto queste cavità naturali, dove il tempo pare si sia fermato. 

Sin dall’alba del mondo sappiamo che le grotte hanno sempre rappresentato dei veri e propri misteri e la storia antica e recente dell’uomo è ricca di fatti inspiegabili e non comuni. 

Forme di paure ancestrali dell’immaginario collettivo, rappresentate da demoni e spiriti maligni, abitanti delle viscere della terra, si sono intrecciate con le fantasiose storie leggendarie di maghi, divinità, esseri demoniaci, briganti e tesori nascosti (truvature), i quali sono stati i veri  soggetti di fantastiche vicende.

La genesi delle grotte vulcaniche segue un processo evolutivo che ha origine dalle colate laviche, le quali scorrendo lungo le pendici del vulcano, alle volte si creano dei percorsi per così dire paralleli. La parte esterna, in quanto a contatto con l’atmosfera, tende a raffreddarsi e a solidificarsi prima, mentre il flusso lavico all’interno della colata  mantiene il suo calore e continua a scorrere come in una galleria, sino a quando viene alimentato. Quando la colata incomincia ad estinguersi e pertanto il flusso non riceve più propulsione, la condotta si svuota e lascia il posto ad una grotta di scorrimento lavico.

In alcuni casi la formazione delle grotte avviene in altri modi. Quando la colata inizia a raffreddarsi e a solidificarsi dai bordi laterali, forma un canale di scorrimento, il quale man mano che la lava defluisce, tende a chiudersi nell’arcata superiore, sino a creare una cavità.

Altri tipi di grotte possono essere realizzate in modo artificiale dall’uomo, ma anche dall’erosione delle acque e dal lento ed inesorabile passare del tempo.

Le grotte etnee sono ampiamente conosciute dal grande pubblico della montagna ed esse, per certi versi per le loro caratteristiche geomorfologiche ed ambientali, hanno rappresentato e raffigurano tuttora per le popolazioni locali, quasi un punto di riferimento, per quello che potrebbe essere lo sbocco e l’avviamento di un progetto turistico con finalità naturalistiche dei vari comprensori.

Le colate laviche etnee rivestono grande valore sia per la struttura di grande interesse geologico che per la  dovizia di caverne e gallerie di scorrimento.

Le “lave dei dammusi”, o lave  “a corda”,come vengono chiamate localmente, fluirono ai primi di Luglio del 1614 da diverse bocche effusive  che si aprirono nel versante nord dell’Etna, ad un’altitudine di circa 2550 metri s.l.m., da dove l’ingente colata di lava iniziò il suo spaventoso percorso distruttivo durato in modo alterno per circa 10 anni, senza però interessare alcun centro abitato. Il flusso effusivo, coprì una superficie di circa 21 km quadrati. Dopo aver percorso una lunghezza di appena km 6,5 ed avere versato almeno 1000 milioni di metri cubi di lava, si fermò a quota 975 metri s.l.m, . La colata del 1614 apportò una modificazione  radicale sul territorio occidentale montano dell’Etna. Infatti, il fiume di magma avanzava e distruggeva quanto si trovava lungo il suo tragitto. “Lave dei dammusi”,  dall’arabo dammus, toponimo oramai in disuso  a significare entità vuote, ed accostato come confronto  ai tetti delle case antiche. La particolarità di queste lave si riscontra nella loro costituzione a lastroni stratificati o, come definita sopra, “a corde” per la conformazione di raffreddamento che ha lasciato degli ampi vuoti o spazi tra una placca e l’altra, per questo comparata ai tetti delle antiche case siciliane, che di solito sotto la volta esterna  erano vuoti. Le lave dei dammusi per le loro straordinarie peculiarità orografiche, oggi rappresentano una meta  per gitanti comuni, attratti dalla particolarità delle loro forme fuori del comune, mentre rappresentano per gli studiosi una nicchia geologica di notevole interesse finalizzato alla ricerca  scientifica, in quanto rivestono grande valore sia per la struttura particolare che per la  presenza di caverne e gallerie.

Una importante galleria di scorrimento fu rinvenuta nel 1965 all’interno delle centenarie “Lave dei Dammusi”. Le sue caratteristiche fecero subito pensare ad una interessante scoperta, portata alla luce ad opera di volontari del C.A.I. di Linguaglossa, i quali diedero alla grotta il nome delle piantine vegetanti in uno dei suoi ingressi: grotta dei lamponi. A circa 1745 metri di quota, la sua lunghezza di circa 700 metri e il suo dislivello di circa 90 metri, la rendono di grande attrazione e tra le più importanti grotte presenti sul territorio etneo. La grotta dei lamponi si snoda in un’unica e ampia galleria, larga circa 7 metri, avente un’altezza media di circa 3 metri al soffitto, il quale in alcuni punti si presenta crollato ed in altri ricco di stalattiti e scorie laviche. Il pavimento, ostruito in alcuni punti da detriti lavici provenienti da cedimenti della volta, testimonia ancora oggi, l’imponente passaggio del magma molto caldo e fluido.

Punto d’arrivo di numerosi escursionisti per la sua facilità di individuazione, in quanto adiacente ad una pista forestale, la grotta dei lamponi può essere usata come punto di partenza per l’esplorazione di un’altra conosciutissima cavità, posta a qualche centinaio di metri di distanza sempre nelle lave del 1614-24, su territorio di Castiglione di Sicilia. Stiamo parlando della grotta degli inglesi, la quale misura mediamente circa 400 metri di lunghezza, circa 6 metri di larghezza e circa 2 metri di altezza. Come la grotta dei lamponi, essa è un condotto di scorrimento lavico, scoperto nel 1975 da un gruppo di speleologi inglesi, dai quali ha preso il nome.

Altre due interessanti grotte generate dall’imponente colata lavica dei “Dammusi”, sono : la “Grotta del Burrò” e la notissima  “Grotta del Gelo”, ambedue in territorio di Randazzo. La prima cavità, caratterizzata da una folta presenza di pipistrelli, può definirsi una grotta di scorrimento, in quanto di sviluppa per circa 250 metri per un’altezza media di circa 4-5 metri. Il percorso di attraversamento può considerarsi non molto agevole a causa dei numerosi residui lavici frantumati e crolli. La “Grotta del gelo”, può considerarsi come la cavità più conosciuta del territorio etneo. Difficilmente raggiungibile nel periodo invernale a causa della massiccia presenza di neve, sia all’esterno che all’interno dove, a causa delle bassissime temperature, si ghiaccia e rende al visitatore delle straordinarie sensazioni visive di grande suggestione. Nel periodo estivo, quando il “ghiacciaio” tende a ritirarsi a causa dell’aumento della temperatura e dalla presenza di fratture interne, la cavità è metà di numerosi gitanti che certamente usano non poche precauzioni nell’esplorarla in lungo e in largo. All’interno della grotta, che si sviluppa per circa 120-130 metri, si accede attraverso un ripido pendìo prodotto da una depressione del terreno. Il percorso può presentarsi abbastanza disagevole, a causa delle perenni rimanenze di ghiaccio, stallatiti e pietrame che periodicamente crolla dalla volta che è alta mediamente 4-6 metri all’ingresso e si riduce sino a qualche metro nella parte più profonda. La grotta si sviluppa mediamente in piano raggiungendo una larghezza tra i 5-8 metri mediamente.   

Come accaduto in precedenza per altre colate, anche l’eruzione del 1923 ha creato delle grotte, oggetto di curiosità per la “gente comune” e di studio per gli speleologi, sempre pronti nel ricercare e portare alla “luce” quanto la natura può produrre di insolito e tende a nascondere alla vista della collettività. Infatti, dopo un’attenta ed approfondita ispezione della colata del 1923,  agli inizi degli anni settanta, gli speleologi penetrarono all’interno di un “tempio” che solo la natura aveva potuto realizzare e, superate diverse difficoltà, scoprirono un’enorme cavità multipla che comprende due condotti lavici:  Profondo Lavico e Monte Nero, unificati  in un solo sistema di scorrimento che chiamarono Profondo Nero.

Dopo la completa e difficile esplorazione della grotta, avvenuta negli anni 90 e portata a compimento con grande scrupolo e professionalità dagli esperti del Centro Speleologico Etneo, si scoprì che la cavità poteva essere considerata per le sue dimensioni la più lunga d’Europa, infatti, essa misura 1170 metri, ha un dislivello totale di 174 metri, consta di 2 ingressi, uno a valle (metri 1905), poco distante dal cono di Monte Nero, e l’altro situato a metri 1995, tra Monte Frumento e Monte Ponte di Ferro.

Com’era prevedibile, un’altra importante colata lavica nel 1947 creò un’altra interessante cavità, chiamata Abisso del ghiaccio, per motivo della neve e del ghiaccio che non di rado si formano al suo interno. Questa grotta, scoperta nel 1992, riveste grande rilievo per gli addetti ai lavori. Tuttavia, visitare le sue profondità alquanto accidentate non è consigliato a  personale  inesperto.

Per la sua notorietà, non possiamo non ricordare nel nostro viaggio, la grotta  delle femmine, questa situata su antichissime lave, oramai ampiamente boscate.

Rivestono grande importanza le interessanti scoperte, consistenti in frammenti ceramici, che sono stati trovati nella grotta delle Femmine, a circa 1600 metri di quota, su terreno appartenente al demanio comunale castiglionese. Tali reperti  per alcuni studiosi risalirebbero all’età del bronzo, mentre per altri sono testimonianze di presenza antropica più recente ma comunque ugualmente preziosi.

E ancora, la  famosa grotta delle palombe, così chiamata per motivo delle numerose colombe che in essa vi trovavano rifugio e acqua da bere, ampiamente citata da Antonio Filoteo degli Omodei, apprezzato scrittore castiglionese del 1500, che così descrive la grotta nel suo notissimo libro AETNAE TOPOGRAPHIA : “ In questa plaga del monte, in luogo verde in ogni stagione, chiamato dagli Etnei la Colletta_, v’è anche un’altra grotta che va sotto terra; quivi un campo erboso privo di alberi_ scende con lieve pendio e per largo tratto offre una specola più alta che con più libera prospettiva verso nord domina fino alle isole Eolie e fin quasi alla regione di Valdemone_. Questa è una delle tre province di Sicilia, la quale guarda a Peloro e al monte Nebrode, oggi detto Madonia, che secondo Solino fu così chiamato per l’abbondanza delle daine.

Questa spelonca ha preso il nome dalla colomba, poiché quasi in tutte le stagioni dell’anno dà riparo a stormi di colombe che vi nidificano; qualche volta con reti e lacci tesi alla bocca di questa spelonca ne abbiamo cacciato molte. Gli Etnei chiamano comunemente questa caverna Grotta della Palomba.”  Questa grotta, per le sue caratteristiche orografiche-ambientali e per la sua notorietà,  rappresenta per la popolazione castiglionese delle sicure  aspettative di promozione turistico-naturalistica.

Parlare di tutte le altre grotte presenti sul territorio etneo, forse renderebbe più importante la lettura di questo scritto. Tuttavia, come dicevamo sono centinaia le grotte censite sul vulcano, pertanto ci limitiamo a menzionarne soltanto  qualcuna, pur essendo consapevoli dell’interesse scientifico che esse tutte rivestono.

Oltre che nella zona vulcanica montagnosa, anche nel territorio pedemontano etneo esistono alcune grotte e in una di esse, sita in località Marca, nella Valle dell’Alcantara, si trovarono ceramiche dipinte e resti di ossa,  risalenti presumibilmente tra l’epoca del rame e quella del bronzo, di indubbio interesse archeologico. Alcuni anni addietro, la Soprintendenza ai Beni Culturali di Catania, pensò di ricoprire questa grotta che così divento inviolabile alla vista e alla presenza della gente.

La descrizione diretta alla conoscenza delle grotte sia dal lato puramente orografico-ambientale che scientifico, ci suggerisce di ampliare questo argomento, anche con notizie un poco più  superficiali e astratte ma che senzaltro rappresentano quantomeno un singolare interesse.

Siamo convinti che, a volte, anche scrivere e parlare delle famose “truvature” o leggende, può essere utile, a seconda dello scopo che si intende raggiungere.

La “truvatura”, può sollecitare l’interesse o la curiosità dell’escursionista alla ricerca di novità e, pertanto, può essere opportuno portare a conoscenza anche le più insignificanti storie, le quali, soltanto per il fatto di essere tali, possono essere importanti, quindi accenneremo anche alla grotta di Monte Dolce e alla grotta di Mazzaruto, ambedue in territorio lavico, le quali sembrano inesistenti, eppure nascondono delle intriganti leggende.

La grotta di Monte Dolce ebbe origine da antichissime colate laviche, le quali, come possiamo notare ancora oggi, coprirono una vasta area che interessa tutto il comprensorio a valle dello stesso antico vulcano, toccando le sciare di Zottorinotto, del Carranco, della Millecocchita e Solicchiata Cottanera e tante altre località per svariati ettari di superficie, in territorio di Castiglione di Sicilia.

Come in tante altre occasioni, anche queste colate formarono delle grotte. Una di queste si trovava propriamente ad est del cono vulcanico. Il piccolo passaggio di accesso era posto al livello del terreno e scivolava al suo interno, dove attraverso un’intricato sistema di cunicoli, secondo un’antica leggenda, oltrepassando sotterraneamente l’alveo del fiume Alcantara e i monti Peloritani, pare portasse direttamente sotto il mare, sino all’isola di Vulcano che, quindi, doveva considerarsi collegata con  l’Etna.

Ovviamente chi ha fatto tale insolito percorso non è potuto ritornare indietro per raccontarlo quindi non vi sono testimonianze dirette e pertanto il lettore dovrà accontentarsi di quanto narrato con un pizzico di fantasia dagli antichi scrittori quali il grande Virgilio, il Petrarca,  Dante ed ultimo il sopraccitato Antonio Filoteo degli Omodei che attraverso il suo ”Aetnae Topographia”, sopra menzionato, ci mette al corrente della sua escursione all’interno della grotta : “... In essa entrai insieme con Marco Franchino, Simone Di Carlo ed altri amici, tutti ugualmente curiosi di conoscere i segreti della natura. Tenendo alla bocca della spelonca ben legata e guardata una fune, che ci trascinammo in lunghezza dietro le nostre spalle, camminammo oltre trecento passi per i luoghi oscuri e gli anfratti scoscesi di quella caverna, portando il lume chiuso dentro le lanterne e maggiori fiaccole accese. Alla fine, vinti dal freddo e dal gelo pungente, sebbene fossimo quasi al solstizio d’estate, ma anche da terribile paura, senza avere trovato il termine della caverna, aggomitolando di nuovo la fune, ripercorremmo il cammino fatto e tornammo alla luce, a rivedere il volto del sole, senza avere portato a termine l’impresa”.  

Questo capitolo rende quasi stimolante l’introduzione di un’altra leggenda o truvatura popolare oramai sconosciuta alla popolazione etnea. Essa prende spunto sempre da un’altra grotta creatasi nelle colate di cui si scriveva sopra e precisamente la grotta di Mazzaruto, in territorio di Castiglione di Sicilia.

La storia fantastica è tratta dal libro “Leggende popolari siciliane”, del 1909,  dello scrittore Salvatore RACCUGLIA.

“ Le sciare di Mazzaruto nel territorio di Castiglione di Sicilia, nel luogo che è detto precisamente il piano, presentano una serie di pietroni più o meno grossi, con un incavo nella parte superiore, che le fa somigliare a grandi trugoli, e che  il popolo ritiene servissero ad abbeveratoio ai cavalli di un certo numero di briganti, che qualche secolo addietro abitavano in una grotta, che non si è più potuta scoprire, ma che certamente deve aprirsi in quel piano.

Audaci e feroci, questi briganti non cessavano di devastare i paesi vicini, ed una volta, anzi, spintisi sino a Novara di Sicilia, rubarono l’unica figlia del barone e portatala nella loro grotta ve la chiusero legata ad un anello infisso nella parete, di fronte ad un giovane muratore, che tenevano là dentro per le possibili riparazioni che la grotta richiedeva.

Inutili furono le pratiche del povero padre per avere la figliola; tutte le offerte quei briganti rifiutarono, ed anzi, quasi ad aggiungere scherno all’offesa e per addimostrare che non temevano di alcuno, un giorno gli si presentarono vestiti da mietitori e gli si offersero per i lavori della stagione. Furono però conosciuti e senza che essi ne sapessero nulla, il barone seppe che i pretesi mietitori erano i ladri della sua figliola, sicché poté dare certe disposizioni.

Fingendo di ascoltare e di accogliere le loro proposte, egli li inviò uno ad uno, per un piccolo corridoio, nella stanza dell’amministratore, che doveva prender nota dei loro nomi, e dare un acconto. Ma nessuno pervenne in quella stanza: un trabocchetto che si apriva nel corridoio li ingoiò dal primo all’ultimo e tolse al mondo tanti scellerati.

Si cercò allora di rinvenire la grotta per riavere la baronessa, ma non vi riuscì e gli anni passarono e quella povera fanciulla col suo compagno vi morirono certamente d’inedia, perché non se ne ebbe più notizia, ed il barone dovè chiamarsi pago di avere vendicato la figliola che non aveva potuto ricuperare.

Parecchi anni addietro, un pastore castiglionese che aveva il suo gregge nel piano di Mazzaruto, vide tra l’erba una pietra con un anello di ferro, ed alzatala trovò l’ingresso di un sotterraneo. Fattosi coraggio, scese la scala e fu ben presto nella grotta, in una prima stanza della quale erano dei commestibili invecchiati e guasti e nell’altra tre grandi mucchi di monete, uno d’oro, il secondo di argento e il terzo di rame. Alle due pareti laterali, legate agli anelli, due catene tenevano ancora avvinti due scheletri.

Il pastore, senza badare ad altro, pensò a prendersi un sacco di monete d’oro e si avviò per uscire; se non chè, quando era sull’ultimo scalino, una voce dall’interno lo trattenne: - A te il denaro, e a me che resta ? Diceva questa voce. Spaventato, buttò allora il sacco e corse verso il paese, dove giunto dovette mettersi a letto per una febbre violenta che lo assalì. Pochi giorni dopo era morto, e da allora più nessuno ha potuto rivedere la grotta di Mazzaruto”.

Dopo avere letto questa infelice leggenda, non possiamo accostare certamente l’ignoto agli antichi briganti per la loro scelta di utilizzare le grotte quali rifugi sicuri. Questo semplicemente perchè la storia ci dice che nell’esistenza  dei briganti non c’era niente di oscuro.

Il brigantaggio certamente si alimentava dell’ignoranza della povera gente che sentiva per le grotte una naturale ritrosia e rifiuto, tuttavia questo triste fenomeno che accompagnò un lungo periodo della storia dell’uomo, traeva origine dalle precarie condizioni di vita dei contadini che sentivano il peso delle loro fatiche nel lavorare la terra, senza potere fruire del prodotto che apparteneva a loro. Pertanto non potendo godere del benessere della terra, quando se ne presentava l’occasione, diventavano briganti, quale protesta dura e selvaggia verso i latifondisti, considerati, causa della loro miseria e arretratezza.

Ebbene le grotte disponevano di tutti gli elementi utili allo scopo di rafforzare la sicurezza di questi ladroni, attraverso la diffusione del mistero e la paura dell’ignoto.

Senza dubbio si tratta di leggende popolari antiche che si intrecciano con le vicissitudini stesse dell’uomo antico, ricco di ingenua immaginazione che lo rendeva rispettoso dell’ignoto, considerato come espressione primaria del male.

Le grotte, oltre a rappresentare i tanti misteri dell’uomo antico, hanno suscitato di contro,  interesse e curiosità  nello studioso, impegnato nella ricerca continua di testimonianze del passato, di natura antropologica e naturalistica, dalle quali potere risalire alle epoche di utilizzo, all’uso che si è fatto da parte dei  vari frequentatori ed alle particolari condizioni ambientali di una determinata area.

Gli uomini primitivi, al loro interno, alla luce delle torce e, ancora prima, con lo scopo di controllare il fuoco, trascorrevano la loro esistenza ed organizzavano la loro vita sociale, in particolare nelle ore notturne, quando praticavano i loro riti tribali e i loro banchetti.  Non di rado le grotte venivano usate anche come luoghi di preghiera arcaica e posti di sepoltura.

Le grotte quindi, non soltanto sono luogo di ricovero per animali selvatici o ispiratori di miti e leggende, esse sono anche permanenti e gelose custodi della cultura e delle tradizioni popolari degli uomini antichi. Lo studio degli straordinari reperti, trovati nel loro interno, ha permesso all’uomo moderno di capire e fare luce sul modo di vivere dei nostri antenati.