Monthly Archives: gennaio 2015

Etna patrimonio dell’Unesco

 Pubblicato su newsicilia.it

Etna patrimonio dell’Unesco, ma l’inquinamento aumenta

rifiuti

 

CATANIA - Lo scempio che giorno dopo giorno si verifica e a cui è sottoposto il nostro vulcano, l’Etna, si amplifica per mano di persone inqualificabili e rattrista gli animi di tutti coloro che amano il paesaggio naturale. Se i nostri antenati scoprissero ciò che accade, inorridirebbero all’idea della violenza inquinante con la quale hanno usurpato “a nostra muntagna” ovvero Mongibello.

Oggi le foto parlano chiaro: le pendici della nostra montagna sono ridotte ad un ammasso di rifiuti. Per tale ragione abbiamo avviato incontri con le istituzioni, per capire che cosa sta succedendo e su come agiscono le autorità competenti per il controllo del territorio paesaggistico e ambientale.

A tal fine, abbiamo dato priorità all’incontro con il commissario superiore Gianluca Ferlito, comandante del nucleo operativo provinciale del Corpo Forestale di Catania, che ha risposto alle nostre domande.

 

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L’Etna, patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco ridotto in questo modo, com’è possibile?

“Sono fortemente addolorato nel constatare una cosa del genere, purtroppo il territorio è molto vasto e sebbene i nostri controlli e la nostra sorveglianza siano ‘no-stop’, non riusciamo a svolgere un monitoraggio capillare e capace di reprimere tutti i reati di abbandono di rifiuti. Da più di due anni abbiamo chiesto al parco dell’Etna di provvedere ad un sistema di controllo mediante un impianto di video sorveglianza, ma capisco anche che i costi risulterebbero molto gravosi.

A dire il vero, adottando un sistema di videocontrollo intelligente programmato con l’uso di apparecchiature alimentate da energia alternativa, forse, si potrebbe.

Non c’è dubbio che gli enti parchi dovrebbero impegnarsi con progetti prioritari onde evitare fenomeni di abbandono. Il complesso vulcanico dell’Etna riveste particolare importanza e l’attività di controllo, collegata anche al maggior pericolo per la pubblica incolumità, deve essere garantita di concerto con la prefettura di Catania e gli organi preposti come l’INGV, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e la Protezione civile. 

In merito al tema dello scempio abbiamo voluto approfondire recandoci nella sede del corpo forestale di Catania, diretto da Antonio Lo Dico, per parlare dell’attività di P.G. e P.S., con il responsabile Giovanni Gubernale.

La situazione sull’Etna è diventata a dir poco paradossale. Il vulcano corre il rischio di essere trasformato in un vero e proprio letamaio?

“In relazione ai compiti istituzionali, il Corpo Forestale opera in ambito regionale con compiti specifici, al fine di perseguire l’obiettivo primario della “sorveglianza”, del controllo, della difesa e della valorizzazione del territorio forestale e montano, del suolo, dell’ambiente naturale e delle aree protette; e il territorio etneo riveste particolare attenzione per l’aspetto paesaggistico collegato con gli Enti parco e con i Gestori delle riserve naturali presenti all’interno che comprendono il 40 per cento del territorio e precisamente il Parco dell’Etna, il Parco dei Nebrodi, il Parco Fluviale dell’Alcantara, le riserve di “Immacolatella (San Gregorio di Catania), il fiume “Fiumefreddo”, la Timpa di Acireale e l’Oasi del Simeto”.

Un immenso patrimonio da salvaguardare e da controllare e si comprende come possa essere difficile poter gestire le attività di controllo.

Tra i molteplici compiti istituzionali assegnati in ambito di tutela ambientale e controllo del territorio, il Corpo forestale esegue periodicamente censimenti dei punti soggetti a scarico di rifiuti di qualsiasi natura, ricadenti all’interno del Parco dell’Etna”.

Si, ma di che tipo di rifiuti si tratta?

Le tipologie di rifiuto variano da quello urbano non differenziato a scarti di materiali edili, lastre in fibro-cemento (eternit), carcasse d’auto, copertoni, materiali plastici, frigoriferi, cucine, divani e tanto altro genere. La loro ubicazione, purtroppo interessa buona parte del parco, come la località “Ruvolita, Passo Zingaro e Parlata” nel comprensorio di Adrano; le località “SS.Cristo”, “Ciapparo”, “Barbotte-Nave” nel comprensorio di Bronte; le località “Montarsi”, “Nocille”, “Ripe della Naca” nel comprensorio di Giarre; le località “Fossazza, Roccacampana, Chiuse Nocille, Borrilione, Vignazza, Cerro, Piano Felci, Casazza”, nel comprensorio di Castiglione di Sicilia e di competenza del Distaccamento Forestale di Linguaglossa; le località di “Gallinaro, Serruggeri, Gervasi, Rinazzo, San Leo, Molinaro, Milia, Monte Arso, Cozzarelli”, nel comprensorio di Nicolosi; le località “Dagala Longa, Ravaggi, Bocca Dorzo, Montelaguardia” di Randazzo; le località “Monte Arcimis, Pozzo Cavotta, Dagalone, nel comprensorio di Zafferana Etnea”.

E come si provvede a bonificare le aree?

In sinergia con le amministrazioni locali, spesso vengono eseguite le operazioni di rimozione dei materiali, anche se la complessità della materia imporrebbe una maggiore sensibilizzazione da parte di tutti gli organi competenti in materia ambientale“.

Imporebbe?… o impone!

Il Corpo Forestale non solo espleta l’attività repressiva che viene condotta con la presenza sul territorio utilizzando anche moderne tecnologie di monitoraggio e controllo dello stesso. Ma vi è l’assoluta necessità di effettuare impianti di video controllo sofisticati e moderni, pronti a a reprimere, ma anche a dissuadere scempi di tale portata. Poi l’azione repressiva ha bisogno di essere coadiuvata dell’azione educativa e divulgativa da parte delle scuole dell’obbligo, mediante l’attività di una vera e propria educazione ambientale, per arrivare al conseguimento di specifiche professionalità, accogliendo istanze di tirocinio pratico per la stesura di tesi di laurea presso questo Ispettorato“.

L’Etna, il colosso che sovrasta la Sicilia, viene ammirato e amato da migliaia di anni. Attraverso carmi e melodie per la sua attraente bellezza, i suoi paesaggi fatati, le sue aurore paradisiache e i suoi tramonti incantevoli è stato reso immortale persino nei ricordi. Senza dimenticare il suo carattere mite, pacioccone ma a volte irruento, che ha attirato l’attenzione di milioni di persone desiderose di venire a trovarlo e anche ad innamorarsene. Può davvero essere il degrado il suo destino?

Giuseppe Firrincieli
(newsicilia.it 20/01/2015)

 

Il Grande Faggio scuro

Qualche metro prima di arrivare al bivio per la contrada Flascio, lungo la SS.120 che da Randazzo conduce a Cesarò, vi è un breve spiazzo dal quale si inerpica la regia trazzera che attraverso l’estrema propaggine sud dei monti nebrodi porta a Floresta. Quasi al confine territoriale con l’ameno paese nebrodeo, affioramenti di roccia sedimentaria danno immagine a straordinarie sculture naturali modellate dal tempo che si ergono nel loro immobilismo come a volere testimoniare la loro possente presenza a guardia delle meraviglie naturalistiche di questo territorio. In questo angolo di territorio, dove la natura ha voluto esprimere la sua generosità, hanno il giusto risalto boschi misti disetanei di faggio, acero, cerro e castagno che, per certi versi ancora tèrsi, si stagliano nel cielo e scendono fino agli argini del fiume Alcantara, offrendo spunti per riflessioni contemplative. Qui, ai bordi di questa vetusta regia trazzera, nel comprensorio territoriale di Pietre Bianche, in agro di Randazzo, fanno da cornice veri e propri capostipiti della flora arborea presente nell’area. Uno di questi “grandi patriarchi” della vegetazione naturale presente su tutto il territorio, è il grande faggio scuro, ovvero uno splendido esemplare di faggio di almeno 500 anni di vita, vegetante in quest’area, che per la sua centenaria età potrebbe raccontare la storia antica e recente di questo vasto comprensorio, i doviziosi intrecci con le popolazioni locali, sempre presente e testimone del passaggio di tante tradizioni, culture e civiltà che hanno contraddistinto in passato queste terre che si specchiano nel fiume Alcantara. Il faggio (Fagus Sylvatica), della famiglia delle fagaceae in Sicilia ha il proprio estremo limite meridionale e occupa le quote più elevate delle stazioni presenti in Europa, riuscendo addirittura a vegetare sull’Etna sino a circa 2200 metri di altitudine. La pianta “madre” della fascia fitoclimatica del fagetum, costituisce sicuramente una delle essenze forestali caducifoglie più importanti presenti nel panorama naturalistico isolano. La corteccia è grigio-argentata, le foglie sono piccole ed ovali con margine intero a volte ondulato, di colore verde intenso dalla parte superiore e leggermente più chiaro nella pagina inferiore. Nel periodo autunnale offrono una suggestiva impressione cromatica quando prima di cadere passano, dal verde intenso al giallo e infine, al marrone.
Il faggio, maestoso nella sua portanza, può raggiungere l’altezza di circa 30 metri. Il tronco in prevalenza diritto e regolare, detiene ottime caratteristiche strutturali che ne favoriscono la sua utilizzazione nei più svariati lavori. La chioma a mosaico con le foglie adulte tutte posizionate sullo stesso piano, si presenta ampia, densa e appariscente, rendendole un portamento inconfondibile. Le inflorescenze maschili sono rappresentate da “spighe penduli” tondeggianti, sostenute da lunghi peduncoli; quelle femminili da fiori racchiusi a due a due nelle ascelle delle foglie. I frutti del faggio hanno peculiarità similari ai ricci del castagno e quando a maturità si aprono, lasciano cadere dei semi, denominati “faggiole” ,   molto ricche di olio che si maturano in un anno .
In passato il faggio veniva ceduato per farne legname da opera e utilizzato nella costruzione di arnesi da lavoro e per la realizzazione di sofisticati mobili ad intarsio. Lo stesso veniva usato come legna da ardere o trasformato in carbone vegetale.
Come tantissime altre piante, il faggio è stato sempre accostato dai popoli antichi, a miti e leggende. Ad esso sono stati attribuiti anche poteri magici e per questo è stato oggetto di culto. Nella foresta di Verzy in Francia, la presenza di alcuni faggi, per la loro conformazione, inquietava il popolo, convinto di avere a che fare con creature mostruose. In Lussemburgo si pensava che il faggio fosse una pianta protetta dagli dei e quindi non poteva essere distrutta neanche dal fulmine.
Vincenzo CRIMI
(Commissario del Corpo Forestale)

I Briganti di MAZZARUTO

L’Etna è stato definito un fantastico laboratorio della natura dove si intrecciano storie umane, miti leggende, dove la vita delle sue creature animali e vegetali segue il suo percorso di naturale straordinarietà pari solo a se stessa.

Su questo territorio che si estende sino ad intrecciarsi con le fredde acque del fiume Alcantara, sono state censite diverse grotte di origine vulcanica, la cui formazione ha seguito di pari passo le manifestazioni eruttive del vulcano che attraverso le sue colate ha prodotto queste cavità naturali, dove il tempo pare si sia fermato.

Sin dall’alba del mondo sappiamo che le grotte hanno sempre rappresentato dei veri e propri misteri e la storia antica e recente dell’uomo è ricca di fatti inspiegabili e non comuni.

Forme di paure ancestrali dell’immaginario collettivo, rappresentate da demoni e spiriti maligni, abitanti delle viscere della terra, si sono intrecciate con le fantasiose storie leggendarie di maghi, divinità, esseri demoniaci, tesori nascosti (truvature) e briganti i quali sono stati i veri soggetti di fantastiche vicende.

All’interno della Valle del fiume Alcantara, in territorio di Castiglione di Sicilia, quasi al confine territoriale con Randazzo, vi è una vasta spianata lavica chiamata “Le sciare di Mazzaruto”. Questo comprensorio fù interessato in epoche preistoriche e protostoriche, dal passaggio a più riprese di alcune imponenti colate laviche generate da fessure eruttive, verosimilmente apertesi a bassa quota. Dopo avere coperto di fuoco rigogliosi boschi, le lave invasero il letto del fiume, ne hanno ostruito e modificato il suo percorso e a causa della loro straordinaria fluidità, si riversarono nel mare di Giardini Naxos, generando Capo Schisò. Le “Sciare di Mazzaruto” presentano una serie di pietroni più o meno grossi, con un incavo nella parte superiore, che le fa somigliare a grandi trugoli, e che il popolo ritiene servissero ad abbeveratoio ai cavalli di un certo numero di briganti, che qualche secolo addietro abitavano in una grotta ivi presente, che non si è più potuta scoprire, ma che certamente deve aprirsi in quel piano. Audaci e feroci, questi briganti non cessavano di devastare i paesi vicini, tra l’Etna e il fiume Alcantara, ed una volta, anzi, spintisi sino a Novara di Sicilia, rubarono l’unica figlia del barone locale e portatala nella loro grotta ve la chiusero legata ad un anello infisso nella parete, di fronte ad un giovane muratore, che tenevano là dentro per le possibili riparazioni che la grotta richiedeva.

Inutili furono le pratiche del povero padre per avere la figliola; tutte le offerte quei briganti rifiutarono, ed anzi, quasi ad aggiungere scherno all’offesa e per dimostrare che non avevano paura di nessuno, un giorno gli si presentarono vestiti da mietitori e gli si offersero per i lavori della stagione. Furono però conosciuti e senza che essi ne sapessero nulla, il barone seppe che i pretesi mietitori erano i ladri della sua figliola, sicché poté dare certe disposizioni.

Fingendo di ascoltare e di accogliere le loro proposte, egli li inviò uno ad uno, per un piccolo corridoio, nella stanza dell’amministratore, che doveva prender nota dei loro nomi, e dare un acconto. Ma nessuno pervenne in quella stanza: un trabocchetto che si apriva nel corridoio li ingoiò dal primo all’ultimo e tolse al mondo tanti scellerati.

Si cercò allora di rinvenire la grotta per riavere la baronessa, ma non vi riuscì e gli anni passarono e quella povera fanciulla col suo compagno vi morirono certamente d’inedia, perché non se ne ebbe più notizia, ed il barone dovè chiamarsi pago di avere vendicato la figliola che non aveva potuto ricuperare.

Parecchi anni addietro, un pastorello che aveva il suo gregge nelle “Sciare di Mazzaruto”, vide tra l’erba una pietra con un anello di ferro, ed alzatala trovò l’ingresso di un sotterraneo. Fattosi coraggio, scese la scala e fu ben presto nella grotta, in una prima stanza della quale erano dei commestibili invecchiati e guasti e nell’altra tre grandi mucchi di monete, uno d’oro, il secondo di argento e il terzo di rame. Alle due pareti laterali, legate agli anelli, due catene tenevano ancora avvinti due scheletri.

Il pastore, senza badare ad altro, pensò a prendersi un sacco di monete d’oro e si avviò per uscire; sennonchè, quando era sull’ultimo scalino, una voce dall’interno lo trattenne: – A te il denaro, e a me che resta ? Diceva questa voce. Spaventato, buttò allora il sacco e corse verso il paese, dove giunto dovette mettersi a letto per una febbre violenta che lo assalì. Pochi giorni dopo era morto, e da allora più nessuno ha potuto rivedere la grotta di Mazzaruto”.

Dopo avere letto questa infelice leggenda, non possiamo accostare certamente l’ignoto agli antichi briganti per la loro scelta di utilizzare le grotte quali rifugi sicuri. Questo semplicemente perchè la storia ci dice che nell’esistenza dei briganti non c’era niente di oscuro.

Il brigantaggio certamente si alimentava dell’ignoranza della povera gente che sentiva per le grotte una naturale ritrosia e rifiuto, tuttavia questo triste fenomeno che accompagnò un lungo periodo della storia dell’uomo, traeva origine dalle precarie condizioni di vita dei contadini che sentivano il peso delle loro fatiche nel lavorare la terra, senza potere fruire del prodotto che apparteneva a loro. Pertanto non potendo godere del benessere della terra, quando se ne presentava l’occasione, diventavano briganti, quale protesta dura e selvaggia verso i latifondisti, considerati, causa della loro miseria e arretratezza.

Ebbene le grotte disponevano di tutti gli elementi utili allo scopo di rafforzare la sicurezza di questi ladroni, attraverso la diffusione del mistero e la paura dell’ignoto.

Senza dubbio si tratta di leggende popolari antiche che si intrecciano con le vicissitudini stesse dell’uomo antico, ricco di ingenua immaginazione che lo rendeva rispettoso dell’ignoto, considerato come espressione primaria del male.

Le grotte, oltre a rappresentare i tanti misteri dell’uomo antico, hanno suscitato di contro, interesse e curiosità nello studioso, impegnato nella ricerca continua di testimonianze del passato, di natura antropologica e naturalistica, dalle quali potere risalire alle epoche di utilizzo, all’uso che si è fatto da parte dei vari frequentatori ed alle particolari condizioni ambientali di una determinata area.

Gli uomini primitivi, al loro interno, alla luce delle torce e, ancora prima, con lo scopo di controllare il fuoco, trascorrevano la loro esistenza ed organizzavano la loro vita sociale, in particolare nelle ore notturne, quando praticavano i loro riti tribali e i loro banchetti. Non di rado le grotte venivano usate anche come luoghi di preghiera arcaica e posti di sepoltura.

Le grotte quindi, non soltanto sono luogo di ricovero per animali selvatici o ispiratori di miti e leggende, esse sono anche permanenti e gelose custodi della cultura e delle tradizioni popolari degli uomini antichi. Lo studio degli straordinari reperti, trovati nel loro interno, ha permesso all’uomo moderno di capire e fare luce sul modo di vivere dei nostri antenati.

Vincenzo CRIMI