LE COLATE LAVICHE ETNEE Di Vincenzo CRIMI
Tantissime sono state le eruzioni che si sono succedute nel corso di questi lunghissimi secoli di vita dell’Etna, eruzioni che hanno via via creato e modellato l’orografia di questo immenso territorio etneo, in perenne movimento e mutamento, a causa delle continue colate laviche e movimenti tellurici. L’evento eruttivo più importante nella storia conosciuta del vulcano, per il suo lungo decorso e per la grande emissione di lava, è avvenuto ai primi di Luglio del 1614. Il versamento lavico, che interessò un vasto territorio intercomunale, venne originato e sostenuto da diverse bocche effusive che si aprirono nel versante nord dell’Etna, ad un’altitudine di 2550 metri s.l.m., da dove l’ingente colata di lava iniziò il suo spaventoso percorso distruttivo durato in modo alterno per circa 10 anni, senza però interessare alcun centro abitato. Il flusso effusivo, coprì una superficie di circa 21 km quadrati. Dopo aver percorso una lunghezza di appena km 6,5 ed avere versato almeno 1000 milioni di metri cubi di lava, si fermò a quota 975 metri s.l.m, . La colata del 1614 apportò una modificazione radicale sul territorio occidentale montano dell’Etna. Infatti, il fiume di magma avanzava e distruggeva quanto si trovava lungo il suo tragitto. La ricca fauna locale subì un grave depauperamento. Dove erano presenti dei rigogliosi boschi di faggio rimase soltanto un paesaggio lunare, certamente molto suggestivo ma senza dubbio pieno di tristezza e vuoto di vita. Infine, a compimento della sua naturale evoluzione, l’enorme colata si fermò arrivando in estrema propaggine sino ed oltre monte Collabasso. Qui il territorio di Castiglione di Sicilia si unisce con quello di Randazzo, qui si formò la grande radura dei “Dammusi”, come a rappresentare la forza suprema della natura, nella sua manifestazione più terrificante. Le lave dei Dammusi: una immensa spianata di lava ha preso il posto del bosco che, sino ai giorni nostri, non ha potuto riconquistare lo spazio sottrattogli dalle lave. Questo a causa della struttura della lava eruttata del tipo pahoehoe, tipica dei vulcani d’Islanda, che si può anche trovare in alcune parti dell’Australia ed in particolare nelle isole Hawaii, dalle quali ne discende il nome. La composizione molto compatta di queste lave non permette l’insediamento di alcuna specie arborea, ad eccezione di qualche sporadica pianta di pino laricio e di ginestra dell’Etna, specie definite colonizzatrici delle lave. Le lave pahoehoe, delle quali vi è presenza nel piano dei dammusi, originariamente sono molto fluide e ad alta temperatura, mai accompagnate da esplosioni di cratere, hanno superficie raggrinzita e vitrosa, con frequente aspetto di matasse di corda, per cui sono conosciute dalle popolazioni locali anche col nome di lave a corda. La loro formazione a corda avviene quando vi è un rapido raffreddamento e consolidamento dei fianchi della colata, mentre il flusso centrale della stessa continua a scorrere. Non appena anche il flusso centrale esterno si raffredda e si fortifica, rimane la lava solidificata a forma di corda, mentre, non di rado, all’interno si forma un condotto lavico dove continua a scorrere il magma. Quando il flusso di lava si interrompe, come abbiamo già ricordato, rimane una galleria vuota che può essere di diverse dimensioni, a seconda della sua portata. “Lave dei dammusi”, dall’arabo dammus, toponimo oramai in disuso a significare entità vuote, ed accostato come confronto ai tetti delle case antiche. La particolarità di queste lave si riscontra nella loro costituzione a lastroni stratificati o, come definita sopra, “a corde” per la conformazione di raffreddamento che ha lasciato degli ampi vuoti o spazi tra una placca e l’altra, per questo comparata ai tetti delle antiche case siciliane, che di solito sotto la volta esterna erano vuoti. Le lave dei dammusi per le loro straordinarie peculiarità orografiche, oggi rappresentano una meta per gitanti comuni, attratti dalla particolarità delle loro forme fuori del comune, mentre rappresentano per gli studiosi una nicchia geologica di notevole interesse finalizzato alla ricerca scientifica, in quanto rivestono grande valore sia per la struttura particolare che per la dovizia di caverne e gallerie di scorrimento presenti. Avvicinandoci ai giorni nostri, dobbiamo menzionare la colata lavica del 1923 che distrusse parte della frazione di Catena di Linguaglossa e causò tantissimi danni agli insediamenti agrari dell’area. La colata, che durò 32 giorni, ebbe inizio la notte del 16 Giugno, quando da due bocche effusive apertesi a quota 2500 metri, fuoriuscì un importante flusso lavico che, alle quote più alte, si accosto nel suo percorso alla colata del 1614-24. Le fenditure si aprirono nelle adiacenze dei crateri del 1809, precisamente, una in zona monte Nero e l’altra nei pressi di monte Ponte di Ferro, ambedue in territorio di Castiglione di Sicilia. La dinamica di scorrimento della colata ricordava quella del 1614-24, in quanto il flusso lavico era ben alimentato ma percorse un breve tragitto. Tuttavia turbò il sonno degli abitanti di Linguaglossa, in quanto era il centro urbano più vicino al fronte lavico, distante in linea d’aria, appena 8 chilometri. L’apprensione dei linguaglossesi e il risalto dato all’evento furono tali che indussero il Re Vittorio Emanuele III° e Mussolini a venire sul posto per verificare di persona i danni causati dalla lava e l’eventuale sua evoluzione. Anche la chiesa locale si attivò in occasione di questa eruzione: venne portato in processione San Egidio, patrono di Linguaglossa, il quale, per chi ha fede, si dice che abbia fermato la colata alle porte del paese. Era il 29 giugno. Il flusso lavico si fermò definitivamente il 18 luglio e ancora una volta il “vulcano buono” diede segno della sua magnanimità. La spianata dei dammusi, dopo la straordinaria emissione di lava del 1614-24, fu interessata, anche se in forma marginale, da un’altra importante eruzione vulcanica nel 1947. Ecco che ancora una volta il signore del fuoco dal profondo delle sue viscere e dall’alto della sua sterminata possanza, fa sentire la sua presenza, come a volere confermare la sua enorme influenza sul territorio.
Etna, il signore del fuoco, palesa il suo vigore. Fa calare il suo manto fiammeggiante che tutto copre e distrugge, ecco che una paura cosmica attanaglia l’uomo rendendolo piccolo e indifeso. Il signore del fuoco, che si tormenta ed urla, il suo alito sa di zolfo, egli si scuote ed esplode. Le sue lingue di fuoco sembrano inarrestabili. Quando si sente il tuono e s’innalza il fumo, ecco: il signore del fuoco è in casa. Egli sorveglia il suo territorio dall’alto della sua possanza, é al di sopra delle leggi dell’uomo, ha la forza di cambiare le cose e modificare il paesaggio, influisce nel bene e nel male, nella vita dell’uomo stesso che lo teme e lo rispetta, lo odia e lo ama, come tiranno e come generoso, dispensatore di benessere e di calamità, padre padrone che trae la sua forza direttamente dagli inferi estremi. ( V. CRIMI 2000)
Erano gli ultimi giorni del mese di Febbraio del 1947, dopo un breve periodo di irrequietezza, il vulcano fece sentire la sua presenza scatenando ancora le sue lingue di fuoco, le quali iniziarono il loro spaventoso percorso da quota 2200 metri circa, nei pressi di monte Cacciatore, dove si formò una “bottoniera”_ lunga almeno 100 metri e dove il vulcano continuò con le sue spettacolari manifestazioni esplosive che interessarono anche la zona di monte Pizzillo. Bastarono appena pochi giorni che la colata definita strutturalmente di tipo “Aa” in quanto composta da pezzi multiformi di varie misure e piene di spigolature, dopo avere lambito le vecchie lave del 1614-24 e avere causato per l’ennesima volta la distruzione di parecchi ettari di bosco di faggio, scese velocemente a quota 900 metri circa, per fermarsi subito a monte di Passopisciaro, dove si ha notizia che furono organizzate delle vere e proprie feste per lo scampato pericolo sia per le colture che per gli immobili. Ancora una volta il “gigante buono” aveva dato adito alla sua leggendaria munificenza. Un’altra imponente colata lavica ha interessato recentemente una vasta area nel versante nord etneo a partire dal 27 ottobre del 2002 nei territori di Linguaglossa e Castiglione di Sicilia. Questo evento eruttivo, oltre a creare panico e sconforto alla popolazione linguaglossese, ha arrecato una grave ferita all’economia del comprensorio e una straordinaria modificazione all’orografia e al patrimonio boschivo del bosco Ragabo. Infatti, nella mattinata del 27.10.02, lungo la polilinea che passa attraverso Monte Nero delle Concazze, i crateri Umberto e Margherita e le bocche del 1923, preceduto da uno pauroso sciame sismico e da una inaudita manifestazione esplosiva con emissione di gas e materiale piroclastico, l’Etna, il signore del fuoco, ha palesato tutta la sua possanza, infatti, una spaventosa colata lavica scaturita da una bottoniera a quota 2100 metri circa, ha intrapreso il suo fatale percorso su due direttive: la prima lungo il pianoro della Provenzana e l’invasione del bosco Ragabo di Linguaglossa, la seconda passando per le località limitrofe di Monte Nero e Monte Rosso, in agro di Castiglione di Sicilia, coprendo una superficie territoriale complessiva di circa 250 ettari. Queste aree, seppur non particolarmente omogenee tra loro dal punto di vista orografico, presentano in modo uniforme delle straordinarie peculiarità di carattere paesaggistico e vegetazionale, tanto da essere considerate dagli appassionati come santuari della natura. La prima colata, dopo avere travolto alcuni impianti scioviari di risalita e secolari faggi, dopo avere totalmente sommerso l’anfiteatro naturale di Piano Provenzana e cancellato gli insediamenti turistici alberghieri ivi esistenti, ha proseguito il suo percorso distruggendo la scuola sci di fondo ed immettendosi in una grossa porzione di pineta pura. Maestosi pini rivolti al cielo come a volere supplicare e suffragare la loro salvezza, sono stati annientati dalla furia del vulcano. Poi ancora nella sua triste discesa verso il basso, il manto di fuoco è calato su altre specie quali quercie e ginestre ed incanalandosi all’interno di un suggestivo torrente così da indicarne la sua direzione, a determinato grande turbamento ed apprensione nelle popolazioni a valle. La colata ha seguito come un indirizzo fatidico ed ha attraversato una vasta porzione di bosco coinvolto in passato in un altro tragico evento doloso. Infatti, quì nel 1956, mani ignote e criminali hanno appiccato il fuoco che ha distrutto circa 400 ettari di pineta. Oggi l’Etna, dopo tanti anni, per un certo verso e forse con ingiusta crudeltà, ha colpito il cuore di quest’area e ha riportato alla memoria dei linguaglossesi quei tragici fatti, facendone ancora rivivere le angosce e le tribolazioni. Questa volta non sono state suonate le campane a raccolta della popolazione linguaglossese che doveva spegnere l’incendio. Tuttavia, non basteranno 50 anni per rivedere un’altro rigoglioso bosco come quello distrutto. La natura crea la bellezza e a volte la modifica a suo piacimento. Il secondo braccio lavico come a non volere fare torto campanilistico, ha invaso il territorio di Castiglione di Sicilia e seguendo come una preordinata direttiva, si affiancava ad un’altra copiosa colata avvenuta nel lontano 1923, facendo scempio di secolari pini larici, faggi, di roverelle e ginestre, minacciando direttamente la nota casermetta forestale della Pitarrona. Nel lontano 1923 la colata entrò di prepotenza nella borgata di Catena arrecando gravi danni. Questa volta fortunatamente si è fermata molto più a monte ma la direzione era il paese di Linguaglossa. L’area interessata alla colata, notissima ai naturalisti puri, era considerata come una vera e propria oasi naturalistica dove la madre natura aveva espresso la sua grande generosità dispensando delle peculiarità orografiche-vegetazionali di grande pregio che l’uomo nel corso dei tempi, aveva saputo ben conservare e apprezzare. Anche in occasione di questo recente evento, l’uomo è intervenuto in punta di piedi ma massicciamente, attraverso l’intervento diretto sugli incendi che innescava la lava al suo passaggio, questo allo scopo di rendere più accettabile le perdite. Il Corpo Forestale della Regione Siciliana è intervenuto con grande efficienza per diversi giorni, ha profuso grande impegno predisponendo idonee opere di spegnimento che hanno impegnato dirigenti forestali, almeno 20 tra sottufficiali ed agenti forestali, oltre 120 operai forestali, n° 10 autobotti, n° 5 velivoli Canadair e 3 elicotteri che hanno effettuato 450 scarichi per un totale complessivo di oltre 3.250.000 litri di acqua. Si è assicurato altresì un assiduo e proficuo lavoro di bonifica dell’area per tanti altri giorni dopo la fine dell’evento, allo scopo di interrompere ed estinguere definitivamente il percorso che il fuoco compie per vie sotterranee attraverso le radici, le quali ricche di resina bruciano lentamente e più delle volte permettono alle fiamme di ritornare in superficie anche dopo alcuni giorni, creando potenziali pericoli di reinnesco di incendi, in apparenza improbabili. Questo fenomeno è tipico dei boschi di resinose quale è in ampia parte l’area interessata all’eruzione. I danni che le colate laviche hanno causato e causano sistematicamente all’ambiente ed alla vegetazione boschiva etnea, nell’immediato non sono facilmente quantificabili, tuttavia, essi apporteranno certamente una modificazione naturale all’ecosistema del vulcano che possiamo considerare come una rara nicchia naturalistica per certi versi ancora integra con grosse potenzialità paesaggistiche e panoramiche con capacità di offrire riparo agli animali e di concorrere all’equilibrio idrogeologico e al mantenimento ottimale del clima. Oggi, fermo restando nella forte perdita che ha subito la collettività in ragione di ambiente naturale, strutture e infrastrutture, possiamo soltanto avere una rappresentazione visiva dell’accaduto che se analizzata in forma corretta e professionale, può farci capire quanto sia elevata la lesione alla dotazione naturale e paesaggistica della comunità, la quale archiviato il momento storico dell’evento e tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, classificherà tale perdita come tributo fatidico alle forze della natura che a volte dispensano benessere, a volte tormento. Tutti abbiamo la consapevolezza che il danno è stato inevitabile e non può certamente essere adotto a qualcuno. Sappiamo anche che ogni albero andato distrutto è una boccata d’ossigeno in meno per i nostri figli. Per questo dobbiamo ancora impegnarci e sforzarci a mantenere la perdita stabile. Sappiamo che dobbiamo ancora intervenire in modo intenso per la tutela del bosco, in quanto deve essere effettuato un idoneo monitoraggio seguito dall’intervento, che interessi l’intero ecosistema del territorio e che volga allo studio delle eventuali sofferenze patite dalle popolazioni animali e vegetali, a causa delle periodiche straordinarie emissioni dell’Etna, di sostanze di natura gassosa e solida che anche a lungo termine potrebbero arrecare danni irreversibili di inquinamento e quindi di alterazione dell’equilibrio naturale. |