Etna Territorio |
Natura Maxime Miranda in Minimis “(La natura si può ammirare maggiormente nelle cose più piccole) ( Plinio il Vecchio )
L’Etna, il signore del fuoco, ed il territorio etneo nelle sue molteplici sfaccettature si possono configurare come uno scrigno ricco di storia naturale della terra di Sicilia. Territorio aspro e selvaggio, definito uno straordinario laboratorio della natura e da sempre abitato dall’uomo che ha saputo plagiare e modellare gli elementi vulcanici, l’Etna è un comprensorio di comuni che rappresentano la testimonianza inconfutabile di diverse civiltà che dal vulcano hanno saputo trarre l’indispensabile sostentamento. La lava e i territori lavici, anche se apparentemente inerti e poco ospitali, sono invece elementi e aree ricche, da subito colonizzate da specie erbacee, arbustive ed anche arboree, a loro volta rifugio o cibo per diverse specie di animali. La descrizione del territorio etneo è da intendersi come una dissertazione più vasta e a lettura ultimata si può ben dire che essa rappresenta una sorta di “summa” di cultura forestale, botanica, zoologica, antropologica, geologica, archeologica e sociale dei comuni etnei, ognuno dei quali ha delle peculiarità diverse ma sempre riconducibili alle caratteristiche generali del territorio vulcanico. L’amore e la passione per la Madre terra etnea, deve essere sempre il filo conduttore di ogni iniziativa e di ogni comportamento, che influisce nelle scelte e nelle adozioni di linee e strategie che l’uomo quotidianamente rivolge verso il territorio, ponendo particolare interesse alla tutela e salvaguardia dei boschi e delle condizioni naturalistiche che esso esprime. Questo obiettivo, si raggiunge anche attraverso una profonda conoscenza diretta del territorio, così da saper comprendere le caratteristiche territoriali, le peculiarità oro-vegetazionali e tutte le altre componenti biologiche che concorrono all’equilibrio dell’ecosistema di questa straordinaria area. La trattazione diretta e le esposizioni dibattimentali organizzate a favore delle istituzioni, delle scuole, degli enti, delle associazioni e di semplici privati interessati agli argomenti, intese come attività divulgativa, non fanno altro che rafforzare la piena convinzione che il rispetto e la valorizzazione della natura, sono le sole condizioni essenziali ed indispensabili per il benessere dell’uomo. La storia del territorio etneo, trae le proprie origini da molto lontano, quando, probabilmente nel pleistocene, cioè circa 700.000 anni fa, a Nord si formava la pianura padano-veneta e nella nostra isola l’Etna o, come veniva chiamato anticamente con un binomio latino-arabo; il Mons Djebel (Mons Gebel), il monte dei monti. Le prime eruzioni sottomarine e quindi l’accumularsi delle numerose lave di base, sommate ad un generale sollevamento tettonico dell’area, provocavano l’emersione di tutta la zona, dove prima esisteva un grande golfo, che oggi possimo individuare tra i corsi dei fiumi Alcantara a Nord e Simeto a Sud-Ovest, per una superficie complessiva stimata in almeno 1500 Km quadrati e 200 Km di perimetro. Certamente, la conoscenza di alcune notizie storiche relative all’area, applicata allo studio e all’analisi del presente, rende più agevole il lavoro di ricerca e più comprensibile la sintesi dell’argomento che ci aiuterà a comprendere l’evoluzione della regione. L’Etna non è solo il più grande vulcano attivo presente in Europa, ma è anche una concentrazione biologica di grande valore antropologico, paesaggistico, botanico e faunistico senza uguali in natura. L’uomo è il detentore e il geloso custode di questo tormentato ed eccezionale territorio e dovrà adoperarsi nel pianificare qualsiasi intervento su di esso, allo scopo di preservarlo integro così da consegnarlo alle future generazioni come quota ereditaria collettiva, inalienabile e ricca di valore naturale e biologico. All’interno di questo territorio è racchiuso quanto di più bello la natura sia riuscita ad esprimere in quest’area geografica, attraverso le sue manifestazioni morfologiche e ambientali, ricche di inestimabile interesse paesaggistico, storico e scientifico. Le caratteristiche naturali si armonizzano con la pregevole azione che l’uomo, a tratti, ha saputo applicare al territorio nel corso degli anni, a partire dalla sua colonizzazione in tempi antichi. Questo impegno, che si può sintetizzare nel rispetto verso il territorio e l’ambiente, è stato tramandato alle popolazioni locali odierne, gelosi custodi di questo patrimonio che a volte, quasi a sembrare antinomia, si fonde tra radicate tradizioni agro-silvo-pastorali e non troppo celate mire turistico-ricreative, non decollate ma proiettate verso il futuro, parte integrante della cultura locale che sostiene ed incita tali ambizioni. La descrizione del territorio etneo e di tutte le sue particolari caratteristiche, causa della raffinata bellezza che esso detiene, si presenta alquanto incoraggiante e ricca di interesse. La presenza di questi specifici elementi, ci fa pensare che dalla sua formazione, attraverso la sua evoluzione, sino ad oggi, la natura non è stata avara con questo territorio. La straordinarietà dei suoi molteplici scenari montani, collinari e pianeggianti, per un certo verso sconosciuta al grosso pubblico, offre al visitatore attento forti emozioni. La diversificazione antitetica dei suoi paesaggi così vari, desertici e rigogliosi, aspri e levigati, trascurati e vitali, arricchisce la crescita culturale di chi ne apprezza le qualità. La conoscenza delle componenti più pregiate dell’ambiente e del suo ecosistema, può agire da stimolo nell’uomo, così da farne accrescere la cultura e l’amore, condizione essenziale per pervenire alla salvaguardia e valorizzazione del territorio stesso. La ricerca interesserà dettagliatamente la descrizione di tutto il territorio e di tutte le sue varianti geomorfologiche e vegetazionali, passando a conoscere altresì le presenze di fauna selvatica, mentre si accennerà sommariamente ai rapporti, a volte molto stretti tra esso e la popolazione locale, senza trascurare alcuni misteriosi aspetti di improbabile natura mitologica ed irreale. Volendo passare in rassegna le straordinarie peculiarità del territorio etneo, ci accorgiamo subito che esso è fortemente influenzato dalla temperatura e dall’umidità che ne determinano il clima arido e quindi propizio soltanto per la vita di determinate specie biologiche. Esso è contraddistinto dalla presenza remota di brevi ed aridi corsi d’acqua (Sciambri) e dalle possenti sculture naturali di roccia lavica forgiate nel corso dei millenni dal vulcano. Nella zona collinare siciliana (500 m. s.l.m. - 1400 m. s.l.m.) sono presenti ampie stazioni di castagneti e querceti di notevole pregio che si fondono con la rigogliosa vegetazione mediterranea, resa ancora più suggestiva dai dolci declivi coltivati a vigneti e punteggiati dal sempreverde ulivo e dal nocciolo.. Tutta l’area è ricca di scenari pittoreschi ed interessanti, dove artistici manufatti lavici e creature vegetali fanno da cornice a suggestivi sentieri naturalistici e scorci paesaggistici di raffinata fattura, immersi nella pace dei tempi. La zona montagnosa, viene delineata ad una quota a partire dai 1400 metri circa sino al cratere. Questo settore montano, compresa la sua variegata vegetazione, oggi più che mai all’attenzione del pubblico, ricade entro la fascia fitoclimatica del fagetum o zona del faggio, dove troviamo per primo il Pino nero o laricio (Pinus Nigra - Zappinu) e il Faggio (Fagus sylvatica - faggiu) che rappresenta l’ultima fascia di vegetazione arborea su questo territorio, dove ha il suo estremo limite meridionale, mentre l’altitudine può considerarsi come la più alta tra tutte le stazioni presenti in Europa. La parte basale di questa fascia è contraddistinta dalla presenza di poderose formazioni di pino nero naturali che possiamo considerare rade ed associate ad altre composizioni arboree naturali singole e tipiche dell’area etnea, come la roverella, il leccio e il faggio. Il pino laricio dell’Etna, della famiglia delle pinaceae, oltre ad essere una delle piante più resistenti e diffuse del panorama vegetazionale etneo, è considerato come una pianta di particolare interesse naturalistico, scientifico e, in passato, anche economico. Gli aghi del pino laricio sono molto abbondanti, accuminati, leggermente ricurvi e di colore verde scuro. I coni sono di color giallo dorato e di forma ovoidale terminanti a punta e misurano circa 8 cm. Il portamento eretto, può essere considerato mutabile, in quanto la sua chioma può essere piramidale o ad ombrello quando la pianta è più matura ed è vegetante in zone battute dal vento. Il tronco mette in evidenza una corteccia grigio-scura, a seconda delle condizioni ambientali, e si fessura profondamente con l’età, creando delle grosse “squame”. La chioma è stretta in rapporto al tronco a causa dei suoi rami arcuati verso l’alto e del fogliame abbastanza lungo. Questa pianta che in particolari condizioni geopedologiche raggiunge anche i 40 metri, riesce a vegetare anche per alcuni secoli[1]. Anticamente il suo legno veniva utilizzato per la costruzione di navi e attrezzi da lavoro. Il legname era utilizzato altresì per la realizzazione di tetti e travi portanti. L’apparato radicale del pino laricio è molto sviluppato ed esteso, sempre alla ricerca di elementi nutritivi utili alla sua vita. Per questo, riesce a rompere e spaccare anche le rocce che si pongono sul suo cammino come ostacolo alla sua crescita, riuscendo nel difficile compito di colonizzare anche le lave affioranti e pertanto svolgere un compito utilissimo ai fini dell’equilibrio biologico del territorio interessato. Le sue radici (Deda)[2] ricche di resina, vengono altresì utilizzate come combustibile per la loro alta e rapida infiammabilità. Fino agli anni 50, nel comprensorio di Linguaglossa, dalle piante di pino veniva estratta la resina che dopo una particolare lavorazione veniva usata per la fabbricazione di acqua ragia, vernice, diluente e pece che gli antichi romani usavano per l’impermeabilizzazione delle loro navi da guerra. Oggi, con l’avvento della moderna chimica, la resinazione è diventata superflua ed inconveniente dal lato economico, pertanto è stata dismessa. Per pura conoscenza di carattere micologico, possiamo aggiungere che il terreno delle pinete si rende molto fertile e ottimale per la crescita di un particolare fungo chiamato lepiota (mazza ri tamburu - cappellina), riconoscibile dal suo caratteristico cappello emisferico ad ombrello. Il pino presente nell’area etnea, risente degli attacchi cruenti ad opera di un insetto appartenente all’ordine dei lepidotteri che per i suoi attacchi predilige questo tipo di pianta : la processionaria del pino (Thaumatopea Pityocampa). Questa fitopatologia si manifesta con una evidente degenerazione delle piante di pino che a volte perdono totalmente gli aghi perchè rosicchiati dagli insetti. Questo fenomeno crea alle piante un sicuro danneggiamento che seppur considerato fisiologico, certamente ne ritarda lo sviluppo e ne determina la parziale perdita dell’accrescimento legnoso. Questi organismi animali che vengono studiati dall’Entomologia, allo stato larvale vivono all’interno di un nido posto sugli aghi dei pini, dei quali si nutrono durante la notte e per tutto il periodo invernale. Essi sono facilmente riconoscibili, in quanto escono dal nido e si muovono in gruppi spostandosi sui tronchi degli alberi e tra i rami producendo un sottile filo di seta che utilizzano per orientarsi sulla chioma e camminare in fila indiana senza perdere il contatto con il capofila. Da questo loro particolare modo di spostarsi come in “processione” trae origine il loro nome di processionaria del pino. Le larve, appena iniziata la primavera, scendono per terra e sempre in “processione”, dopo avere trovato del terreno soffice ed esposto al sole, si incrisalidano in morbidi bozzoli di seta, sotto un leggero strato di terreno da dove escono fuori agli inizi dell’estate gli insetti adulti sottoforma di farfalle. Dopo la metamorfosi e la loro trasformazione in farfalle, sono distinguibili dai loro colori tenui e dalle ali grigie e bianche contraddistinte da una macchia nerastra sulle parti posteriori. L’inizio del loro breve ciclo vitale di due o tre giorni, le vede impegnate in volo alla ricerca di un ramo ricco di aghi, dove troveranno l’alimentazione e dove dopo l’accoppiamento depositeranno le uova e ricopriranno il tutto con peli secreti dalle femmine in modo da formare il nido dove si completerà il ciclo. Vari sono stati in passato i metodi di lotta alla processionaria del pino. Si è iniziato con l’asportazione manuale dei nidi, per finire con l’irrorazione delle superfici interessate al fenomeno con mezzi aerei, attraverso una vera e propria “lotta biologica” che negli anni passati ha consentito di controllare l’evento con ottimi risultati. Per combattere questa battaglia contro il pericolosissimo insetto defogliatore, venivano utilizzati degli elicotteri che diffondevano topicamente un agente che si trova presente in natura sottoforma di bacillo: il “Bacillus Thuringiensis” che, scaricato sugli aghi dei pini, veniva ingerito dalle larve della Processionaria, le quali, subito dopo, per effetti indiretti morivano. Questo prodotto, pur essendo letale per i lepidotteri, non rappresenta alcun pericolo per l’uomo o per gli animali. Oggi questo tipo di trattamento non viene più praticato a causa dell’incompatibilità con norme di carattere ecologico-ambientale vigenti nelle aree protette, in quanto il sorvolo di queste aree da parte di velivoli non è consentito dalla legge e pertanto il trattamento è stato bloccato e di conseguenza il fenomeno ha ripreso il suo trend verso l’alto. Al problema della processionaria del pino si interessa da anni anche l’Ufficio Speciale forestale di Catania, che in concerto con l’Istituto di Entomologia Agraria di Catania, ha predisposto un servizio di monitoraggio a lungo termine, allo scopo di studiare il fenomeno, il quale dopo un periodo di ipervirulenza, dovrebbe regredire a livelli minimi. Questa evoluzione in positivo, dovrebbe essere favorita da almeno due fattori più importanti: le annate più o meno rigide e un incremento delle difese biologiche dell’albero che possano collimare con il periodo in cui esso, allo stremo delle sue forze, non riesce più a dare nutrimento alle larve degli insetti. Ovviamente stiamo ancora parlando di uno studio che si basa soltanto su alcuni elementi che verranno successivamente analizzati e studiati, allo scopo di approntare altre difese più appropriate. Come se non bastassero gli attacchi della processionaria del pino, un altro insetto dell’ordine dei Coleotteri e della famiglia degli Scolitidi, sembra si sia abituato a frequentare le pinete dei nostri comprensori. Stiamo parlando del Blastofago distruttore dei pini (Tomicus piniperda). E’ un insetto di colore nero, lungo 3-5 mm. Il suo attacco si presenta ben visibile in particolare nelle chiome che perdono i germogli e si dissecano irreversibilmente, portando alla morte l’intera pianta. L’insetto scava gallerie di alimentazione ben visibili per la resina che ne fuoriesce dai buchi, all’interno dei rami e del tronco, dove le femmine depongono le uova e si sviluppano le larve di colore biancastro con capo bruno ed una lunghezza di 8-9 mm, quando raggiungono la maturità. Il Blastofago, sverna all’inizio della primavera e sfarfalla a inizio dell’estate. La lotta al Blastofago del pino, si effettua con una buona tecnica silvocolturale tendente al rafforzamento delle piante esistenti nel bosco e all’eliminazione di quelle già attaccate e morte, quindi si avrà cura di asportarle dall’area, in quanto questo insetto riesce ad adattarsi anche su di esse. Il faggio, della famiglia delle fagaceae è l’altra essenza della zona montagnosa etnea. La pianta “madre” di questa fascia fitoclimatica, costituisce sicuramente una delle essenze forestali caducifoglie più importanti presenti sull’Etna. Il frutto, detto faggiola, è molto ricco di olio e matura in un anno. Le foglie sono piccole ed ovali con margine intero a volte ondulato, di colore verde intenso dalla parte superiore e leggermente più chiaro nella pagina inferiore. Il tronco si presenta molto slanciato ed ha la corteccia grigio-argentata. La chioma a mosaico con le foglie adulte tutte posizionate sullo stesso piano, si presenta ampia, densa e appariscente, rendendole un portamento inconfondibile. Le inflorescenze maschili sono rappresentate da “spighe penduli” tondeggianti, sostenute da lunghi peduncoli; quelle femminili da fiori racchiusi a due a due nelle ascelle delle foglie. In passato il faggio presente sul territorio etneo, veniva ceduato per farne legname da opera e utilizzato nella costruzione di arnesi da lavoro e per la realizzazione di sofisticati mobili ad intarsio. Lo stesso veniva usato come legna da ardere o trasformato in carbone vegetale. Alcuni esemplari di faggio possono raggiungere anche 25 metri di altezza. Come tantissime altre piante, il faggio è stato sempre accostato dai popoli antichi, a miti e leggende. Ad esso sono stati attribuiti anche poteri magici e per questo è stato oggetto di culto. Nella foresta di Verzy in Francia, la presenza di alcuni faggi, per la loro conformazione, inquietava il popolo, convinto di avere a che fare con creature mostruose. In Lussemburgo si pensava che il faggio fosse una pianta protetta dagli dei e quindi non poteva essere distrutta neanche dal fulmine. E’ altresì importante accennare al compatto strato erbaceo presente in alcune zone, al di sotto del piano arboreo e composto da varie specie che formano anche delle radure prive di vegetazione arborea. Ciò testimonia l’esistenza nel passato di un’intensa attività di pascolo che ha portato nel tempo alla formazione e allo sviluppo di una folta cotica erbosa, la quale nel periodo estivo ha stimolato la transumanza delle greggi, che accompagnate dai loro pastori e dai loro cani, si spostavano dalle cosiddette zone marine per recarsi all’alpeggio su questi ampi territori ad alta quota. Il pascolo intenso e non selezionato del passato, sommato alle condizioni climatiche dei luoghi, ha bloccato qualsiasi processo evolutivo verso formazioni vegetazionali più avanzate. Oggi si tenta di correre ai ripari attraverso un’attenta gestione e regolamentazione dell’esercizio del pascolo ed in particolare del carico di bestiame assegnato, tenendo conto delle esigenze della gente e non dimenticandosi dell’interesse primario dell’ambiente. Queste caratteristiche praterie etnee, in questo settore specifico sono molto ampie e diffuse tanto da trovarsi a tratti persino nel mezzo della pineta o più raramente della faggeta . Infatti la pineta artificiale sopra descritta è stata insediata su una di queste aree. Alle quote più alte della regione etnea, superati i 2200 metri di altitudine, al di sopra dell’orizzonte del faggio, le condizioni geopedologiche sono proibitive tanto da essere ostili a qualsiasi forma di vita animale e vegetale. L’ambiente è caratterizzato dalle “Glaree”[3], non per questo meno suggestive, degne di interesse scientifico e oggetto di attenzione da parte di illustri studiosi antichi e moderni, i quali ci hanno raccontato con grande esaltazione, gli straordinari intrecci tra questo paesaggio lunare e i grandi miti della letteratura antica, passando attraverso il fantastico e soprannaturale. A queste altitudini, la natura si pone in evidenza e favorisce la presenza di vegetazione cosiddetta di altitudine, caratterizzata da specie arbustive come lo spinosanto (astragalus siculus), che può considerarsi endemico della zona. Utilissimo per il mantenimento delle pendici, contribuisce non secondariamente alla protezione e contenimento del suolo. I suoi decotti di radici, sono ancora oggi diffusamente usati per la cura contro le malattie renali. Il tanaceto (Tanacetum Siculum) è un’altra piantina endemica perenne della famiglia delle “Compositae” che vegeta alle alte quote. La fioritura inizia nei primi giorni estivi, quando unitamente ai pulvini di spinosanto, riesce a dare un tocco di incantevole tonalità alle nere lave etnee. Questa piantina in alcune zone dell’Etna, veniva usata per la distillazione di un liquore aromatico, chiamato “Donnavita”, molto conosciuto dalle popolazioni etnee. A questo liquore venivano riconosciute presunte proprietà terapeutiche e magiche. Si pensava che, bevendo il suo infuso, si acquistava l’immortalità. Oggi questo tipo di bevanda non è più conosciuta dalle giovani generazioni, forse perchè l’uomo non rincorre più il mito dell’immortalità. Altre piantine tipiche del paesaggio etneo sono il romice dell’Etna (Rumex aetnensis), il cerastio (Cerastium aetneum), la viola (Viola aetnensis) e i delicati fiorellini rosa della saponaria (Saponaria L.), scelta a rappresentare il simbolo del Parco dell’Etna. Dopo averne passato in rassegna alcuni aspetti, della zona montagnosa etnea, si continua il percorso naturalistico nella zona collinare che dai 1400 metri sul livello del mare, scende ai 500 metri di quota. Per semplificarne il riconoscimento ed esaltarne le peculiarità pertinenti, suddividiamo ancora questo territorio in due fasce vegetazionali. La prima tra i 1400 e i 700 metri s.l.m., chiamata tecnicamente la zona del Castagno o Castanetum, ed ospita il castagno (Castanea sativa - castagnu), la roverella (quercus pubescens - cezza - ruguru) e la Ginestra dell’Etna (Genista aetnensis - inestra). Non di rado in questa zona, possiamo trovare piante sparse di pino laricio che comunemente ha il suo naturale habitat alle quote che superano i 1400 metri, nella cosiddetta zona montagnosa etnea, dove è possibile trovare anche floride formazioni di ginestra dell’Etna. La seconda fascia è denominata zona del Lauro o Lauretum, scende di quota sino ai 500 metri e accoglie le colture agrarie come la vite, il nocciolo e l’olivo. Per il lettore tecnico ci sembra giusto ricordare che ovviamente la classificazione delle suddette zone fitoclimatiche non può considerarsi rigorosa per quanto riguarda l’osservanza delle altitudini e della vegetazione presente che pertanto può variare. Questo è dovuto ai microclimi delle varie località e ad altri elementi antropici e naturali, che concorrono alla formulazione di tale tabella, i quali di territorio in territorio, possono subire delle modifiche naturali che possono determinare la presenza di piante tipiche di altre fascie fitoclimatiche e viceversa. Ad ogni modo in questa nostra rassegna, ci siamo attenuti alla classificazione fitoclimatica generale data al territorio isolano da alcuni testi silvocolturali specializzati, nella fattispecie, alla classificazione del prof. Pavari, massimo esperto in materia. In quest’area è importante la descrizione di alcune piante presenti nella prima fascia che varia dai 700 ai 1400 m. di altitudine, corrispondente alla zona fitoclimatica del Castanetum, rappresentata come dicevamo, dal castagno, dalla roverella, dalla ginestra dell’Etna e non solo. Vogliamo offrire al lettore una esaustiva rappresentazione della presenza vegetazionale più rappresentativa delle selve etnee, elaborata e sperimentata dagli uomini con la passione dei boschi, che hanno calcato queste terre e che si tramandavano di generazione in generazione. In particolare descriveremo in modo dettagliato il castagno, che, come vedremo nella descrizione, ha rappresentato per le popolazioni locali etnee, delle particolari caratteristiche che ne hanno fatto e ancora ne fanno una pianta di grande interesse economico e sociale. Il castagno appartenente alla famiglia delle fagaceae, ha un portamento maestoso: albero di grandi dimensioni, presenta una chioma ampia, più o meno rotondeggiante con un fusto tozzo ed eretto. Il grande filosofo greco Teofrasto, vissuto fra il IV e il III secolo a.C., definiva le castagne “ghiande di Zeus”, in quanto il castagno evocava il dio supremo, quale reggitore dell’universo, grazie alla possenza del suo tronco, all’ampiezza della sua chioma e alla propagazione molto sviluppata dei suoi rami che le conferiscono un aspetto imponente e maestoso. Le foglie oblungo-lanceolate e seghettate di consistenza coriacea, nella parte superiore hanno colore verde scuro lucido, nella parte inferiore si distinguono per il loro colore verde pallido opaco. Di temperamento mesofilo[4], il castagno è una specie a rapido accrescimento che fruttifica precocemente a circa 10 anni, raggiungendo la maturità a circa 80 anni per le fustaie e 12 anni per i cedui. Si propaga per seme e per talea[5], ed è presente su quasi tutto il territorio isolano. La coltivazione del castagno, attraverso i secoli, ha rappresentato per le popolazioni montane meridionali e quindi etnee, un sicuro motivo di grande importanza economica ma anche di elevato pregio ambientale e cultura sociale, la quale, a volte si è fusa con le abitudini di vita quotidiana che ha accompagnato i vari momenti storici del cammino dell’uomo. Per tradizioni antichissime, il castagno presente sull’isola, presumibilmente da circa 18.000 anni, è stato oggetto di attività colturale da legno e da frutta. La castagna ha infatti rappresentato in passato, una delle principali risorse alimentari che contribuivano al fabbisogno delle popolazioni rurali. Svariati erano i modi di consumo della castagna nella dieta giornaliera; arrosto, lesse, secche, a forno, ma in particolare, dopo averla macinata, la castagna diventava farina da utilizzare per ricavarne pasta, pane, dolciumi e quanto altro servisse all’occasione per le esigenze domestiche. Non solo, in parte essa veniva usata in zootecnia, come mancime per gli animali domestici. Ecco, tutto questo per le popolazioni rurali poteva considerarsi, in senso ampio, una forma di reddito agrario che andava ad integrare gli altri introiti derivanti dalla vendita del frutto pregiato (marrone) e del legname che veniva suddiviso nei vari assortimenti mercantili. La trasformazione del legname grezzo in materiale da opera era considerata un’arte artigiana che gelosamente si custodiva e si tramandava da padre in figlio, che ne facevano fiorente commercio. I tronchetti da opera, ovvero le pezzature più grandi, venivano e tuttora vengono usate per la fabbricazione di infissi, armadi, tavoli, mobilio per cucina e mobili da arredamento identificati anticamente come “arte povera” ed oggi come mobili di valore e non a portata di tutti. Grande utilizzo se ne faceva nella realizzazione di tetti e attrezzi per usi agricoli e artigianali. L’uso del legname di castagno era totale, pertanto veniva adoperato anche il fasciname per ricavarne brace, graticciate e riscaldamento domestico. Inoltre, nell’antica tradizione rurale, il frutto rappresentava, per un certo verso, un momento significativo di aggregazione e svolgimento della vita sociale per tutta la famiglia che, essendo durante la giornata sempre impegnata nei più svariati lavori, la sera si riuniva davanti al fuoco e consumava le castagne, dialogando e raccontando, ognuno le proprie storie di vita giornaliera: quelle più remote venivano narrate dai più anziani, che in quei tempi erano parte attiva ed integrante della famiglia, definita non a caso “patriarcale”. Non solo, la raccolta delle castagne, fino agli anni 60, era strettamente connessa alla attività di gruppo del mondo operaio, che si impegnava nell’espletamento di tale pratica, anche attraverso l’organizzazione specifica, finalizzando i risultati di tale consociazione, ad un maggiore reddito da lavoro dipendente. Infine, fino a qualche anno addietro, il castagno veniva utilizzato per la produzione del tannino che veniva usato per la concia delle pelli e nella praparazione di inchiostri e prodotti medicinali. Ad ogni modo, le caratteristiche ambientali e orografiche dei nostri territori, sommate al perdurare dell’artigianale mentalità operativa e gestionale degli imprenditori meridionali, rendono oggi naturalmente vano e sconsigliabile sotto l’aspetto economico, qualsiasi impegno di recupero che non sia finalizzato ad una coltura indirizzata specificamente a recuperare e rafforzare le capacità produttive di impianti da frutto o da legna, tenendo presente le richieste di mercato, purtroppo oggi scarse, che, come dicevamo, influenzano sempre le scelte di produzione. Di contro oggi assistiamo all’importazione del legname da opera di castagno proveniente da altre regioni d’Italia, le quali riescono a vendere il loro prodotto a costi veramente competitivi. Dobbiamo altresì tenere conto che tutto il territorio etneo ricade all’interno del Parco Regionale dell’Etna e pertanto ogni iniziativa di natura imprenditoriale, finalizzata alla valorizzazione di questa pianta, dovrà essere in linea con quelli che sono i regolamenti del Parco che hanno lo scopo di tutelare e salvaguardare il territorio, attraverso la sua immodificabilità. Se alle suddette difficoltà, vogliamo aggiungere le due gravi fitopatie di cui il castagno soffre, e cioè il cancro corticale e il mal dell’inchiostro, ne esce fuori un quadro estremamente allarmante, che fa ulteriormente abbassare il reddito delle popolazioni montane, che anche per questo sono costrette ad abbandonare tali pratiche che, solo se ben organizzate, possono essere ancora abbastanza renumerative. Nel territorio etneo il castagno è governato a ceduo ed è presente in modo diffuso a macchia di leopardo. La presenza del castagno, è uniformemente concentrata su terreni demaniali della Regione Sicilia e su terreni privati La vegetazione castanile nel proprio ambiente e i terreni silici-vulcanici, generalmente molto freschi e profondi dei terreni etnei, fanno sì che il castagno cresca abbastanza rigoglioso malgrado esso sia minacciato dal cancro corticale (Endothia Parasitica--Murr:And). In qualche sporadica occasione è stata riscontrata anche la presenza del mal dell’inchiostro (Phitophthora Cambivora--Petri.Buis.). Il Cancro corticale è causato da un fungo ascomicete (Criphonectria parasitica--Murr..Barr), isolato in Italia meridionale verso i primi anni quaranta, di origine asiatica, presumibilmente pervenutoci attraverso gli Stati Uniti, sin dagli inizi del secolo. La malattia, a volte irreversibile per la pianta, si presenta in diverse manifestazioni, caratterizzando la più grave denominata ipervirulenta, fortunatamente non molto diffusa sul nostro territorio. Essa si manifesta sottoforma di una grossa squamazione e screpolatura della corteccia, che all’inizio interessa soltanto una piccola parte di essa, per poi, in certi casi, ramificarsi su tutta la pianta. Sulla parte colpita si nota facilmente il micelio, che presenta il tipico aspetto felciforme feltroso, di colore crema, e che nella sua evoluzione, a seconda del periodo, tende a fare seccare sia le foglie che le infioriscenze, creando a volte, secondo la virulenza, un vero e proprio distacco tra la corteccia e la parte legnosa del tronco, il quale nei casi più gravi, tende ad infeltrirsi e morire. Un’altra caratteristica di riconoscimento del cancro corticale è l’emissione, da parte della pianta, di nuovi polloni nella parte immediatamente sottostante alla sezione colpita, come a volere manifestare una forma di difesa e voglia di vita. Il cancro corticale è presente su una superficie territoriale molto vasta: la sua diffusione si può considerare quasi uniforme su tutto l’areale di vegetazione, anche se, da una recente indagine, sia è emerso che, statisticamente, sembri in fase regressiva. Queste informazioni ci fanno ben sperare, e, se è vero che la malattia in qualche modo sia in diminuzione, aumentano le speranze di potere finalmente debellare e sconfiggere questo male che crea così grave devastazione alle popolazioni castanili. L’ampiezza del territorio interessato al problema, crea obbiettive difficoltà nell’intervento repressivo su vasta scala, mirato contro il cancro corticale, sia con la lotta di risanamento biologico che con interventi tecnici sostitutivi. Non secondariamente vi è anche un altro problema di “frammentazione”, nel senso che la maggior parte di impianti sull’Etna sono in possesso di privati che sembrano oramai rassegnati a convivere con tale fenomeno e, ovviamente, all’atto dell’intervento appropriato di prevenzione e repressione della malattia, per svariati motivi e in particolare per cause economiche, applicano la vecchia pratica, tramandata dai padri, del taglio a raso, che nell’immediato sembra risolvere il problema ma subito dopo qualche anno, si rimanifesta più grave che mai, non lasciando prospettive incoraggianti per il futuro. La finalità di questa pratica colturale è la riduzione dei turni, così da cercare di rinforzare i giovani polloni. Incoraggianti e degni di menzione sono alcuni studi ed interventi in avanzata fase sperimentale a carico di esemplari colpiti in forma ipervirulenta. Il trattamento, previo accertamento di compatibilità genetica, consiste nella inoculazione di un ceppo ipovirulento sulle piante infette da patologia ipervirulenta. Tale tecnica, a secondo delle condizioni, sembra che riesca ad influire positivamente nell’assicurare un decorso benigno alla pianta, riuscendo a volte a creare potenzialità di cicatrizzazione per la stessa. Questo metodo, applicato manualmente su vasta scala, evidentemente comporta considerevoli problemi di natura tecnico-economica che su notevoli superfici ne sconsigliano l’impiego. Tuttavia, per fini scientifici e di studio, potrebbe essere una ipotesi degna di approfondimento e sperimentazione. L’altra fitopatia, fortunatamente non molto diffusa nel comprensorio etneo, che unitamente al cancro corticale concorre ad arrecare qualche danno ai nostri boschi di castagno, è il mal dell’inchiostro (Pytophtora Cambivora): questa malattia, quando è presente sulla pianta, nella sua manifestazione riesce a creare danni alquanto gravi, in particolare, quando l’impianto è esposto a forte umidità e le caratteristiche pedologiche del terreno non dimostrano buona permeabilità e capacità di scambio degli elementi nutritivi. I tessuti cambiali vengono attaccati dal fungo, che non lascia loro scampo, si stabilizza sulle radici della pianta e di seguito tende ad infestare anche le parti inferiori del tronco, che, conseguentemente, presenta una modificazione cromatica, rappresentata da macchie nerastre ben definibili a causa del distacco della corteccia. Tale fenomeno porta al precoce deperimento della pianta, attraverso un complesso processo biologico che può avere un decorso lento o rapido, così da causare persino la morte della pianta nel giro di pochi anni, a seconda della gravità. La presenza del Mal dell’Inchiostro si manifesta con vari sintomi: ingiallimento delle foglie, disseccamento dei rami principali ed interruzione del processo di fruttificazione, in quanto i ricci non sviluppati restano attaccati alla pianta. Come per il cancro corticale, la lotta al mal dell’inchiostro, rappresenta delle serie difficoltà di attacco, in particolare negli interventi su vasta scala. Tuttavia, buoni risultati si sono ottenuti con progetti di impianto di castagno giapponese e conseguente innesto con cultivar comuni. Questo metodo, certamente molto complesso nella pratica, normalmente viene sostituito con l’applicazione di una mirata cura colturale che, alla fine, porta al taglio raso e conseguente reimpianto. Come abbiamo visto le due principali patologie che colpiscono il castagno, pur se presenti in Italia da molto tempo, rappresentano in effetti un problema che ovviamente dovrà essere ancora materia di studio nel campo della difesa forestale, e seppur negli ultimi anni abbia acquisito interessanti risultati nella pratica di studio delle alterazioni vegetali causate da tali fitopatie, in concreto non ha sortito alcuna attuazione terapeutica che possa considerarsi soddisfacente, sia per il costo che per i risultati. Ad ogni modo, la conoscenza delle sintomatologie, che, nella fattispecie, oltre a quelle menzionate, sono abbastanza varie, può facilitare le diagnosi indicative della malattia e quindi l’intervento più appropriato. Un’altra pianta che condivide il territorio collinare etneo con il castagno e tende ad avanzare in altitudine, cercando di recuperare il terreno perso in passato a causa dei forti prelievi di utilizzazione, è la roverella (Quercus pubescens) . Come il castagno, appartenente alla famiglia delle fagaceae, la roverella è una quercia tipica molto diffusa su tutto il territorio etneo. E’ una pianta eliofila o lucivaga[6] e vegeta su terreni di qualsiasi natura, i quali nei periodi autunnali e primaverili vengono letteralmente presi d’assalto dalle genti locali che si dilettano alla ricerca dei prelibatissimi funghi di varie specie ed in particolare dei porcini che, oltre nelle quercete, crescono nelle faggete e nei castagneti. Il porcino è uno dei funghi più conosciuti e apprezzati dai cercatori per la sua facile identificazione, per il suo profumo e gusto. Può essere mangiato sia crudo che cucinato e può essere conservato sott’olio, essicato o congelato. Il tronco della roverella si presenta imponente, a volte tozzo e rugoso. I rami e la pagina inferiore delle foglie sono lanuginosi[7], mentre la pagina superiore si presenta liscia e di un colore verde intenso lucido. Le foglie pubescenti cadono nel periodo invernale. Il legno della roverella è molto ricercato dalle popolazioni locali. Molto duro, viene utilizzato per ardere e per la realizzazione di carbone vegetale. Il frutto o ghianda, che si matura in un anno, è protetto da un involucro coriaceo, ricoperto di piccole squame nella sezione superiore, serve come alimentazione di animali selvatici e domestici, e, in passato, anche dei popoli primitivi. La propagazione della roverella può avvenire per seme o per via agamica[8]. Robusta, possente, longeva, rispettata dagli dei e consacrata al potente Giove, la roverella simboleggia la forza e la saggezza sin dai tempi greco-romani. Gli antichi romani praticarono su tutto il territorio isolano un vero e proprio disboscamento di queste piante e di tante altre, allo scopo di impiantare un’intensa attività agricola, tanto da far definire la nostra isola, come il granaio di Roma. Considerata da molti popoli antichi come la prima pianta a fare la sua apparizione sulla terra, ha ispirato struggenti e leggendarie vocazioni poetiche, in particolare per le sue foglie pubescenti[9] : Si narra che un giorno il diavolo si recò dal Signore e gli disse: “Tu sei il signore e padrone di tutto il creato, mentre io, misero, non possiedo niente di niente. Concedimi una signoria pur minima sulla creazione.”. “Che cosa vorresti?”, domandò il Signore. “ Dammi, per esempio, il potere sul bosco”, propose il diavolo. “E sia” , decretò Dominiddio, “ ma solo quando i boschi saranno completamente senza fogliame, ovvero durante l’inverno; in primavera il potere ritornerà a Me”. Quando gli alberi dei boschi cedui vennero a sapere del patto, cominciarono a preoccuparsi e, con il passare del tempo, la preoccupazione si mutò in agitazione. “Che cosa possiamo fare?”, dicevano disperati. “A noi le foglie cadono in autunno”. Il problema pareva ormai insolubile, quando al faggio venne un’idea: “Andiamo dalla quercia, che è la più robusta e saggia. Forse lei escogiterà una soluzione”. La quercia, dopo avere riflettuto gravemente, rispose: “Tenterò di trattenere le mie foglie secche sui rami finchè non spunteranno le foglioline nuove. Così il bosco non sarà completamente spoglio durante l’inverno e il demonio non potrà avere il dominio su di noi”. Da allora le foglie secche della quercia rimangono, almeno in parte, attaccate ai rami fino al tardo inverno per cadere completamente soltanto quando almeno un cespuglio si è rivestito della prima fogliolina. Una pianta caratteristica della zona collinare che, per certi versi rappresenta l’Etna stessa, è la ginestra della famiglia delle leguminosae. E’ una pianta fortemente colonizzatrice dei substrati lavici e delle aree fortemente degradate e percorse da incendi ed è diffusa nell’intero territorio etneo, dove, in concorso con tutti gli altri endemismi che arricchiscono la flora presente nei luoghi, contribuisce a rendere il paesaggio veramente suggestivo, per motivo dei numerosissimi fiori colorati di un giallo intenso e profumati che essa esprime dai suoi delicati rami verdi e penduli nel periodo estivo allo sbocciare. La ginestra dell’Etna, pur mantenendo un comportamento prettamente arbustivo, per la maestosità di alcuni esemplari, sull’Etna è considerata giuridicamente pianta arborea e riesce a raggiungere anche i 6 metri di altezza. Come per la quercia, il legno della ginestra è molto ricercato per il suo utilizzo come legna da ardere e da carbone vegetale. Questa pianta nell’area del Parco dell’Etna è estremamente protetta ed ogni attività di taglio nei suoi confronti soggiace ad una rigida regolamentazione. Dopo esserci soffermati meritatamente sulle piante tipiche presenti in questa zona collinare etnea, continuiamo il nostro viaggio immaginario alla ricerca di quegli scorci visivi naturalistici e di quegli elementi essenziali che rendono il territorio etneo multiforme e ricco di attrazione naturale. Il paesaggio forestale di queste contrade racconta la storia naturale intrecciata con la realtà umana. Infatti, la storia dei mutamenti ambientali è dovuta quasi sempre alle attività umane, pur non dimenticando che il bosco, nella sua tenace ricerca del “climax”[10] adatto alla sua esistenza, memorizza nel suo essere un autentico archivio verde dove attingere quelle straordinarie informazioni che guidano le nostre azioni nel complicato percorso della vita. Abbiamo conosciuto la vegetazione boschiva più rappresentativa della zona collinare etnea e, continuando in questo percorso alla scoperta di questo incantevole comprensorio, ci avviamo lungo dei sentieri tortuosi e poco battuti, la nostra attenzione attirata dalla presenza di un animale che raramente si porta sino a queste quote basse: la lepre italica ( Lepus corsicanus - De Winton, 1898). Infatti, questo tranquillo animale vive in prevalenza nella zona montagnosa, all’interno del territorio protetto. Sino a qualche anno fa, si pensava che la lepre presente sull’Etna fosse la specie europea (Lepus europaeus - Pallas, 1778). Dopo diversi anni di ricerche e studi teorici e pratici a cura dell’Istituto Nazionale per la fauna selvatica di Ozzano Emilia in provincia di Bologna, allo scopo di valutarne le differenze morfologiche e genetiche, effettuati sul territorio etneo, si è scoperto che questa lepre può considerarsi autoctona dell’Italia centro-meridionale e quindi nettamente distinta dalla lepre europea. La sua specificità italiana e meridionale in particolare, le permette di ricoprire un rilevante valore faunistico per il nostro paese, da difendere scrupolosamente dagli attacchi antropici a causa del forte interesse venatorio che l’animale dimostra, in particolare nelle aree non “protette”. La lepre italica (etnea), in apparenza e agli occhi inesperti, assomiglia molto alla lepre europea che, come dicevamo, non è presente sull’Etna ed in generale in Sicilia. Questa circostanza in passato ha fatto pensare che la Lepre presente sul nostro territorio fosse quella europea, tant’è vero che, giuridicamente, essendo errata la classificazione, paradossalmente essa poteva essere oggetto di caccia nelle aree aperte a tale esercizio, poichè, non classificata come italica, non veniva inserita fra le specie non cacciabili di cui all’art. 18 della Legge n° 157/92. La taglia della lepre italica è più piccola rispetto alla lepre europea, le tonalità del suo mantello sono giallo-rossiccio e nella nuca e nella parte dorsale del collo hanno una colorazione grigio-nerastra, mentre nella lepre europea è rossastra. Le orecchie e i piedi sono lunghi, gli arti molto sviluppati, la coda leggermente evoluta e la pelliccia soffice. La lepre italica presente sul territorio di cui ci stiamo occupando è un animale solitario e vive prevalentemente ai limiti della vegetazione, rifugiandosi all’interno di vecchie ceppaie, depressioni del terreno e cespugli. La sua dieta è composta a base di germogli e piccoli virgulti. La sua struttura corporea abbastanza longilinea e contenuta, il dorso curvato e flessibile, il ventre retratto e il bacino piccolo, la rendono molto adatta alla corsa e al salto. Per la prima volta la lepre italica è stata descritta dal famoso naturalista inglese W. E. De Winton nel 1898, quando la classificò come specie Lepus corsicanus, individuando il suo habitat nell’Italia centro-meridionale, nella Sicilia, nella Corsica e nell’isola d’Elba. Un’altra presenza molto gradita è quella del coniglio selvatico (oryctolagus cuniculus), un simpatico animaletto che conosciamo tutti, in quanto presente su tutto il territorio di cui ci stiamo occupando. Forse sin dalla sua esistenza sulla terra, il coniglio ha subito una continua persecuzione sia dai predatori animali che dal predatore più potente in natura : l’uomo. Infatti il coniglio è sempre stato oggetto di caccia ad opera dell’uomo, per cibarsi, per regolamentarne la massiccia proliferazione della specie, per sport e per diletto. Lo Stato, attraverso l’istituzione delle aree protette, è venuto in aiuto di questo piccolo mammifero, infatti è risaputo che nei parchi e nelle riserve, l’attività venatoria è proibita e pertanto il coniglio deve tenere a bada soltanto i predatori a 4 zampe. Il coniglio morfologicamente assomiglia alla lepre e tuttavia si distingue dalla sua taglia e dalle orecchie più piccole. Essendo per natura gregario e molto prolifero, vive in gruppi abbastanza numerosi e conduce vita sociale preferibilmente su terreni asciutti, i cosidetti “trippaturi”[11], dove trascorre molti momenti della sua giornata. Per ricovero scava delle tane nel terreno, avendo particolare cura nel predisporre varie uscite intercomunicanti tra di loro, per darsi agevolmente alla fuga in caso di pericolo. Il colore del coniglio selvatico varia tra il grigio e il beige chiaro con sfumature rossastre e con la coda bianca. Si nutre di germogli, radici e semi. Due sono gli acerrimi nemici del coniglio: il gatto selvatico (felis silvestris) e la volpe (vulpes vulpes). Il gatto selvatico, non molto diffuso sul territorio etneo, è facilmente riconoscibile dal suo mantello variegato con particolari tonalità che vanno dal nero brillante al bruno scuro con striature grigiastre. Dalla coda molto lunga, può raggiungere anche i 5 chili di peso. Il gatto è un animale solitario diurno-notturno che cerca la compagnia dei suoi simili soltanto nel periodo dell’accoppiamento. E’ considerato un cacciatore quasi infallibile in quanto preferisce catturare le sue prede usando la tecnica dell’imboscata. Si nutre di conigli ed anche di rettili, lepri, uccelli e roditori. La volpe, molto presente sul territorio, è uno dei pochi animali selvatici a non avere predatori in natura. Caccia gli stessi animali che compongono la dieta alimentare del gatto selvatico ed inoltre si nutre di frutta, cereali e rifiuti di qualsiasi genere. La volpe è facilmente riconoscibile sia per la sua morfologia e, in particolare, per il suo mantello rossiccio e la coda molto spessa e folta, sia per il semplice fatto che è facilmente avvistabile, in quanto a volte si spinge in cerca di cibo sino alle periferie dei paesi. La presenza fugace dell’istrice (Istrix cristata - porcospino), ci rende consapevoli della grande importanza naturalistica di questa presenza. Basti pensare che questo scontroso animale, sino a qualche anno fà sembrava in fase di estinzione su questi territori. Oggi le condizioni sono estremamente favorevoli per la vita di queste bestie che non essendo disturbate dalla presenza dell’uomo con il fucile, hanno trovato il giusto equilibrio ecologico dove possono vivere e riprodursi in modo indisturbato. L’Istrice è molto schivo e silenzioso, è fornito di accuminati aculei che utilizza per difesa. Si nutre di bulbi, frutta, radici e cortecce di alberi. La sua presenza sui nostri territori risale presumibilmente al tempo degli antichi romani che lo importarono dall’Africa. Un altro grazioso animaletto assiduo frequentatore di questo ambiente ma anche di altre quote altitudinali, è la coturnice sicula (Alectoris graeca, sottospecie whitakeri). Appartenente alla famiglia dei fasianidi, pur essendo un uccello, ha le ali corte e preferisce camminare per terra tra i cespugli, dove si nasconde quando percepisce la presenza di predatori. La coturnice si nutre di piccoli insetti e semi e molluschi, raramente supera il mezzo chilo di peso. Il colore della coturnice italica, in generale presenta un rilevante grado di variabilità individuale. La parte superiore del corpo varia tra il grigio cenere chiaro e l’intenso del bruno oliva. Il dorso di solito è più scuro e intenso, in particolare la coda vermicolata. Il colore della parte inferiore del corpo, generalmente, rispecchia quello della parte superiore a differenza dell’addome e della sottocoda che hanno una tonalità giallo chiaro. La coturnice è caratterizzata da alcune piume ornamentali oblique in chiaro e scuro poste sui fianchi. Tipico è il suo collarino nero che si diparte dal becco rosso e si ricongiunge sulla parte superiore del petto. Come la lepre, la coturnice è una preda molto ambita per i cacciatori che in passato ne hanno messo a rischio persino l’esistenza. Oggi, la presenza di un cospicuo numero di questi uccelli presenti in particolare sull’Etna dove la caccia è vietata, fa pensare che il pericolo di estinzione sia scomparso. La coturnice sicula costruisce il suo nido con foglie e piume nelle cavità del terreno, dove depone fino a 15 uova che vengono covate per circa 25 giorni, quando vengono alla luce i pulcini. Attorno al 1700, secondo alcuni studiosi, in Sicilia viveva anche una speciale varietà locale di coturnice con il corpo perfettamente bianco ad eccezione di qualche sfumatura di tonalità più scura. L’avvistamento di una maestosa poiana in atteggiamento di caccia, rende l’idea della libertà e dell’ebbrezza dello spazio immenso. Questa sensazione dura solo un momento, giusto il tempo di scorgere uno degli animali più temuti di tutto il territorio : la vipera. Questo rettile, molto diffuso sul territorio settentrionale dell’Etna, seppur considerato pericoloso per l’uomo, di fatto non è di indole aggressiva e attacca soltanto se si sente minacciata e deve difendersi o per cacciare le sue prede che sono piccoli roditori, lucertole, piccoli volatili e altri animaletti di piccole dimensioni. La sua dimensione può arrivare a circa 50 - 70 centimetri, ha la caratteristica testa depressa e il tronco tozzo di colore verde oliva con striature più scure. Seppur, come dicevamo, difficilmente la vipera attacca l’uomo, è possibile calpestarla involontariamente o avvicinarla con i piedi, il che può scatenare la sua reazione, pertanto è buona abitudine quando si visitano questi posti, usare delle calzature alte o degli stivali. Nel caso in cui se si è morsi[12], non bisogna perdere la calma ma immediatamente raggiungere il primo ospedale per le cure del caso. Oggi ci troviamo in Sicilia con una superficie boscata di circa Ha. 280.000. Questa circostanza fa pensare che fortunatamente ci si è resi conto che dopo il periodo decadentista silvocolturale, nato dalla massificazione degli insediamenti agrari, era necessario procedere ad un forte incremento del patrimonio boschivo isolano, attraverso sistematici ed oculati rimboschimenti. Questo nuovo modo di pensare alla gestione del territorio è stato favorito nel comprensorio etneo anche dall’impossibilità di applicare nei terreni vulcanici, dove l’orografia è tormentata, la meccanizzazione degli impianti. Anche il complesso etneo ha fruito di questi massicci interventi artificiali di rimboschimento. Dopo la massiccia deforestazione pre e post bellica, sono stati rimboschiti diffusamente diversi ettari di terreno. dove fu chiusa l’attività del pascolo, furono impiantati pino laricio, roverella, castagno e persino furono posti in essere degli esperimenti impropri consistenti nella messa a dimora di piante di frassino, cedro deodara, abete bianco. Oggi, questi terreni possono considerarsi a forte boscosità. In quel periodo non molto remoto, al bosco era ancora riconosciuta una duplice funzione benefica: la funzione idrogeologica e la funzione economica. La funzione idrogeologica consiste nel regolare il normale deflusso delle acque meteoriche, così da evitare il verificarsi di erosioni ed alluvioni. Come è noto il bosco interviene in questa azione sia con le chiome degli alberi che attenuano l’impatto dell’acqua con il suolo, che con le radici che trattengono saldamente il terreno in modo da evitare che lo stesso, trascinato a valle, crei gravi forme di dissesto idrogeologico. Il rispetto verso la terra e le piante certamente è un bene che ci proviene da molto lontano. Forse prende spunto dal fantastico mondo mitologico antico che rappresenta la terra come madre feconda che dà sostentamento all’uomo, il quale ne trae tutto quello che gli serve per la propria sopravvivenza. Già l’uomo primitivo considerava le piante quale espressione più significativa della terra, in quanto le utilizzava per costruire le palafitte che gli servivano per ripararsi dagli eventi atmosferici e come rifugio e difesa dagli animali feroci. In seguito l’uomo capì l’utilità delle piante rendendosi conto che svolgono importanti funzioni di mantenimento del suolo, di regimazione delle acque e ospitalità per la fauna selvatica, riconoscendo pure la loro capacità di influenzare anche i fattori climatici. La vita del bosco, quindi sin dall’antichità, si è intrecciata con le tradizioni delle popolazioni che vivevano di esso e per esso. Ancor oggi, con tutte le distorsioni possibili, l’interesse posto a tutela del territorio mantiene intatte molte di quelle caratteristiche. La seconda funzione di notevole interesse svolta dal bosco è di natura economica, basti pensare che in passato il bosco con i suoi frutti e il suo legno ha rappresentato una fonte economica cospicua che integrava il reddito per tantissime famiglie etnee. Il legno, ancora oggi, è un prodotto molto importante e significativo nel panorama socio-economico dei paesi montani, ma certamente non rappresenta e non deve significare l’unico fine della sua gestione. I boschi etnei, per quanto possibile, vanno curati e coltivati con interventi discreti e mirati al mantenimento e rafforzamento dell’equilibrio naturale, in modo che ove possibile possano fornire legno e, nello stesso tempo, con la loro presenza contribuire ad evitare danni all’ambiente che potrebbero manifestarsi, attraverso dilavamenti, ruscellamenti, erosioni, frane e forme di inquinamento che determinano l’estinzione di alcune specie di animali e vegetali. Queste integrate con le altre qualità dell’aria, dell’acqua e dei suoli, forniscono risorse materiali e paesaggistiche, uniche per la vita stessa dell’uomo. Certamente è cambiato il modo di vivere e le esigenze della gente, è crollato il mercato degli assortimenti mercantili legnosi che ci forniscono i nostri boschi, i regolamenti silvocolturali vigenti nelle aree protette sono molto più rigorosi, pertanto è quasi finita la funzione economica derivante dalle utilizzazioni boschive intensive. Questo fenomeno apre la strada ad una forma di economia che possiamo definire di tipo naturalistico. Infatti, i boschi presenti sul territorio etneo, sono oggi chiamati a svolgere una terza funzione di natura paesaggistica e ricreativa. L’uomo, dopo avere in passato via via abbandonato il territorio agreste e montano etneo, per ragioni di modesto reddito, di natura sociale, pratica e psicologica, si accorge oggi delle enormi potenzialità del bosco e di tutte le sue componenti territoriali, nonchè del ruolo che esso ha assunto dal punto di vista paesaggistico e dello svago. Per questo scopo nel corso di questi ultimi anni, si è cercato di seguire con maggiore impegno da parte di tutte le componenti decisionali interessate, un particolare e accorto percorso turistico-programmatico che porti a nuove forme di sviluppo socio-economico, derivanti da un mercato naturalistico in forte espansione. Per continuare su questa via, si dovranno realizzare e potenziare delle infrastrutture idonee a promuovere e ricevere il flusso turistico che aumenta sempre di più. Dovranno essere attivate tutte le iniziative finalizzate alla pubblicizzazione e diffusione del prodotto naturalistico immesso sul mercato. Il territorio etneo, unico per le sue peculiarità di grande interesse naturalistico, può rappresentare un punto di riferimento per gli amanti della natura, in quanto può offrire al visitatore dei frammenti di ambiente veramente affascinanti che fanno da cornice ad alcune gradevoli strutture recettive naturalistiche di grande rilevanza che possono senza dubbio definirsi come massima espressione del connubio uomo-natura. Certo, bisogna armonizzare e non dimenticare anche le esigenze del territorio che è l’attore principale di questi attributi. Bisogna comprendere che l’aumento della presenza antropica a fini turistici tanto auspicata da quanti hanno a cuore le varie problematiche occupazionali della gente che così può trarne beneficio, se non regolamentato, potrà certamente creare a lungo andare dei notevoli squilibri, innescati da elementi destabilizzanti, nemici giurati dell’ambiente, quali rifiuti, incendi, danneggiamenti, realizzazione indiscriminata di infrastrutture, automezzi e quanto di più negativo l’uomo possa esprimere ai fini del degrado ambientale del territorio. A questo fenomeno si deve prestare molta attenzione ed avere la consapevolezza che con la nuova funzione del territorio, deve nascere nell’uomo una nuova funzione gestionale più sensibile a tali problematiche che vanno profondamente studiate, senza peraltro rilegarlo ad atteggiamenti di “pura ecologia della contemplazione” ma nemmeno portarlo ad agire come se il territorio e le sue componenti naturali fossero una risorsa inesauribile. L’uomo, sempre alla ricerca di nuove fonti, portatrici di reddito per la collettività e consapevole della penuria di sbocchi occupazionali di natura industriale, deve tentare a tutti i costi di coniugare uno sviluppo turistico sostenibile che tenga conto delle proprie esigenze economiche e della tutela del territorio. Sviluppo turistico sostenibile, nel senso che bisogna andare incontro alle necessità del presente, senza compromettere le esigenze delle generazioni future, sviluppando un particolare interesse per il territorio e avendo cura di non danneggiarlo, così da consegnarlo a chi verrà dopo di noi, senza manomissioni e nella sua integrità originaria. Fondere queste necessità, apparentemente antitetiche, potrà sembrare contradditorio ed impossibile. Tuttavia, questo potrebbe anche essere motivo di lavoro e di impegno degli Enti territoriali preposti (Parchi e riserve), i quali attraverso i loro regolamenti ed il loro coordinamento, debbono cercare il modo che gli interventi sul territorio di qualsiasi genere siano finalizzati a queste necessità di sviluppo economico e di tutela che debbono certamente considerarsi indivisibili. Se non riusciremo a conseguire tale obiettivo, emergerà evidente il fallimento. Più a valle della zona del castagno, sino a lambire le sponde del fiume Alcantara, troviamo la zona del Lauretum, dove pulsa il cuore delle attività agricole. Quì, le colture per eccellenza sono la vite da vino, il nocciolo, l’ulivo, il pistacchio, gli agrumeti e persino gli ortaggi. L’abbandono in alcune aree, l’orografia molto accidentata e pertanto la mancanza di qualsiasi idonea viabilità e manutenzione, fa sì che periodicamente una vasta porzione di territorio etneo, venga percorso dal fuoco. La visione di un ecologista puro trae grande fascino dalla veduta quasi selvaggia di alcune contrade per la loro integrità e naturalezza. Purtroppo, l’addetto ai lavori giornalmente scopre che con il disordine vegetazionale del bosco e del sottobosco,creato dall’abbandono rurale, accentuatosi inesorabilmente ed in modo irreversibile negli ultimi vent’anni, si fa sempre più forte e concreto il rischio incendio che viene messo in evidenza dalle manifestazioni climatiche oramai alquanto favorevoli allo sviluppo e all’evoluzione negativa di tale fenomeno che viene molto incrementato dallo scarso senso civico e dal poco rispetto che si nutre nei confronti della natura, vista come qualcosa della quale se ne possa fare a meno o, più delle volte, considerata come qualche cosa di rinnovabile in eterno. Se, come accennavamo prima, da un lato proprio la massiccia presenza antropica nei boschi può rappresentare per loro un potenziale pericolo derivante dall’alterazione del delicato equilibrio che si instaura tra le varie forme di manifestazione dello stesso bosco e il comportamento della gente che ne usufruisce, paradossalmente dall’altro lato la mancanza di una ridotta antropizzazione pone delle problematiche pericolose alla vita del bosco, mentre, dal punto di vista paesaggistico, ne esalta le qualità e l’alto valore estetico e naturalistico. Da qualche anno assistiamo sul territorio etneo ad un aumento del grave fenomeno degli incendi boschivi, che certamente interessa non solo tutti i paesi mediterranei ma anche l’intero nostro territorio nazionale. In Sicilia ed in altre regioni meridionali, la situazione diventa ogni anno sempre più grave. Infatti, gli incendi oltre ad apportare imponenti danni al patrimonio economico delle comunità, sono causa di disastri ambientali difficilmente quantificabili a breve termine, in quanto determinano una progressiva desertificazione del territorio, modificandone irreversibilmente il clima e l’ambiente, nonché influendo in modo estremamente negativo nella difesa idrogeologica, in particolare dei bacini montani, irrinunciabile per la conservazione naturalistica del territorio. Certamente più il terreno è boscato, minore è il rischio di dissesto idrogeologico, causato sempre dalle forti precipitazioni meteoriche, sottoforma di pioggia, neve e grandine, le quali non trovando idonea copertura arborea sul territorio, a seconda della loro forza di impatto con il suolo, causano consistenti fenomeni di dilavamento, erosione e frane. Il fuoco, la macchina più potente esistente in natura, ha un potere distruttivo enorme, nondimeno altrettanto è il benessere che ha portato all’umanità per cui ci sembra utile conoscerlo profondamente sin dalle sue origini. Tra l’uomo e il fuoco nel corso dei millenni si è intrecciato un rapporto di amore-odio che si è protratto nel corso del tempo fino ai giorni nostri come un legame simbiotico. Sin dagli inizi il fuoco rappresentò per l’uomo un fenomeno di angoscia e paura, infatti quando si verificava, per esempio, per la caduta di un fulmine, causava non solo nell’uomo ma anche negli animali grande spavento. Fin dalla sua scoperta il fuoco è sempre stato visto dall’uomo come un elemento di grande interesse, sia per la sua influenza negativa sull’ambiente, che per la sua capacità benefica di utilizzazione nella gestione del territorio, attraverso la sua applicazione nelle normali cure di conduzione rurali e agronomiche. Ovviamente è sempre l’uomo che controlla il fuoco e lo utilizza, in un senso o nell’altro, a beneficio o a danno del territorio. Quindi con il passare del tempo, l’uomo incominciò ad usare a proprio piacimento il fuoco, così da non essere più temuto ma addirittura integrato con l’universo umano. Dai dati raccolti, emerge che negli ultimi anni si è riscontrato un forte incremento delle estensioni delle aree percorse dal fuoco. Questo, attraverso un’attenta analisi, viene interpretato come sintomo di forte virulenza, essendo in forte aumento in alcune aree geografiche. L’evento incendio sul nostro territorio si concentra in determinati e brevi periodi estivi, rappresentando altresì, per la sua intensità e violenza, obbiettive difficoltà nella organizzazione delle opere di spegnimento, che talora diviene difficile e rischioso per gli operatori antincendio a causa dell’accidentalità del suolo che va sommata alla precarietà e all’inesistenza di viabilità di servizio. Gli incendi, si propagano facilmente a causa del forte vento, ma anche per l’abbondanza di combustibile, che nella fattispecie si trova sottoforma di arbusti, cespugliato e quanto di più pericoloso può esprimere una “complessità disordinata di soprassuolo”, sul quale non vengono mai effettuati interventi di pulitura, e un territorio di abbandono. Considerato che nel nostro territorio non possiamo parlare di autocombustione, ci sentiamo di affermare che solo nell’1% dei casi gli incendi possono essere riconducibili a cause naturali, mentre oltre il 70% sono dovuti a cause dolose, il 20% a cause involontarie e il restante 9% a motivi non classificabili. Negli anni passati, queste superfici territoriali di cui ci stiamo occupando, sono state più volte percorse e devastate dal fuoco appiccato da ignote mani criminali che forse non riescono a capire minimamente il danno che con il loro comportamento irresponsabile, causano alla collettività e quindi anche a se stessi e ai propri figli. Il fenomeno incendio per la sua complessità, il più delle volte, non viene visto ed interpretato nella sua giusta dimensione e drammaticità, sia nella trattazione diretta che nell’esposizione dibattimentale, attraverso i mezzi di informazione, i quali, archiviato il momento storico relativo all’accaduto, non ne curano l’approfondimento, inteso come motivo di ricerca delle cause scatenanti, dei sistemi di lavoro, dei mezzi sempre precari, degli uomini insufficienti, delle attrezzature obsolete, delle vaste aree interessate al fenomeno e così via. Nell’immediatezza del fatto, ci siamo oramai abituati a leggere sui giornali le varie opinioni e i rimedi. Tutti esperti del settore, tutti a volere ricercare e spiegare le cause e i perchè di questo grave dramma che puntualmente ogni anno colpisce la collettività, certamente non solo isolana o nazionale. Tutti preoccupati ad elargire colpe...agli altri, tutti “ambientalisti” e detentori di sapienza e pseudo soluzioni, tutti sempre pronti a combattere questa battaglia del fuoco ma difficilmente propensi a scendere in campo in modo diretto ad operare per il bene comune. Chi, come il Corpo Forestale della Regione Siciliana opera in forma diretta contro il fuoco, può affermare che le cause degli incendi sono complessi e molteplici e possono essere di varia natura: piromani, vendette personali, emulazioni (bisognerebbe capire perchè più si discute in televisione e sui giornali del fenomeno incendi e più questo si accentua), rinnovamento di pascoli (il terreno percorso dal fuoco, favorisce la crescita del foraggio fresco), atti dolosi dimostrativi con finalità di protesta verso chi gestisce il territorio e ne regola la fruizione ( tipico e relativo alle limitazioni di tutela nelle aree protette). Un’altra causa non secondaria và ricercata nella mancanza di un idoneo controllo delle tradizionali pratiche di pulitura dei terreni agricoli attraverso l’utilizzo del fuoco senza un’adeguata opera di vigilanza, dalla quale potrebbe scaturire la natura colposa dell’incendio. Anche l’abbandono delle campagne, come si accennava sopra, concorre nella formazione di incendi boschivi. Infatti, come emerge di solito nelle indagini post-incendio, in varie occasioni si riscontra l’inizio dell’evento, proprio nei terreni abbandonati. Il fuoco, il più delle volte nella sua evuluzione, dopo avere percorso tali zone incolte, si riversa nelle aree boscate. Infine, a nostro parere, vi è una causa sociale che purtroppo scaturisce dallo scarso senso civico e da una marcata presenza di illegalità diffusa e consapevolezza della impunità, in particolare nelle zone del mezzogiorno d’Italia, dove più accentuato è il divario culturale relativo alle problematiche ambientali. Oggi dobbiamo altresì confrontarci con un altro grave fenomeno che tende ad aggravare le cause scatenanti degli incendi: l’aridità del territorio, causata dalla esigua e, in alcune aree geografiche, totale mancanza di precipitazioni meteoriche, dovuta alle modificazioni climatiche che stanno interessando ampie superfici del nostro pianeta. Certo alle nostre latitudini non possiamo parlare di autocombustione. Tuttavia, è accertato che le alte temperature contribuiscono a fare di un fuoco un incendio difficilmente controllabile. Non sono idoneamente supportate le varie ipotesi di speculazioni edilizie, in quanto è risaputo che sulle superfici percorse dal fuoco è vietato costruire. Tantomeno si pensa a presunte responsabilità dolose nel fenomeno da parte di operai impiegati in modo saltuario e periodico nel servizio antincendio, per il fatto che, pur aumentando gli incendi, le risorse economiche da investire nel settore sono sempre le stesse, quindi non vi sono aumenti di giornate lavorative o altro. Inoltre, la statistica ci dice che la maggiore parte di incendi avviene in aree private, dove non verranno mai progettati rimboschimenti artificiali e quindi non si può certo parlare della scellerata equazione...più incendi = più rimboschimenti. Comunque, anche a volere affermare tale ipotesi, certamente si tratta di casi isolati e malgrado qualche operaio del servizio antincendio potrebbe essere oggetto di biasimo, la maggior parte di essi, meriterebbe un plauso e tanta riconoscenza per il loro impegno e coraggio, profuso giornalmente con grande senso di responsabilità e a volte sprezzo del pericolo, sempre in agguato. Ricordiamo che il fuoco è un mezzo di formidabile forza devastatrice che, oltre a danneggiare gravemente l’ambiente, ha causato anche numerose vittime umane, per questo ci sentiamo obbligati a rivolgere un pensiero grato e rispettoso verso tutti i caduti delle varie battaglie che nel corso dei tempi hanno impegnato l’uomo contro un nemico così temibile come il fuoco. Per lo spegnimento degli incendi vengono impegnati uomini in uniforme, operai forestali addetti allo spegnimento degli incendi e mezzi terrestri senza limitazioni e con brillanti risultati. A volte gli esiti sono stati modesti e certamente non per cause dovute all’innefficienza del personale in campo che anzi in alcuni casi ha dovuto sostenere dei sacrifici e dei rischi non indifferenti. Le difficoltà nell’intervento su queste aree vanno ricercate nella mancanza di viabilità, nell’assenza di punti di approvvigionamento idrico e nella forte presenza di sottobosco e confusione vegetazionale derivante dalla mancanza di manutenzione silvocolturale che rappresenta una componente infiammabile di alto rischio difficilmente controllabile. Queste negatività di intervento hanno posto delle enormi difficoltà e limitazioni nelle opere di repressione. Il più delle volte i danni al patrimonio arboreo e cespuglioso sono stati contenuti grazie all’intervento aereo. Tuttavia, quando un fuoco, per le obiettive complicazioni di intervento, diventa incendio, le opere di spegnimento diventano alquanto difficili ed il territorio ne paga le conseguenze per un periodo difficilmente quantificabile. Anni di esperienza insegnano che il principio fondamentale per combattere la battaglia del fuoco è la prevenzione. Va innanzitutto precisato che le varie forme di prevenzione debbono avere sempre per base una buona conoscenza delle cause scatenanti degli incendi, attraverso un attento monitoraggio delle complesse problematiche che potrebbero scatenare il fenomeno e delle aree a rischio, in modo da poterli meglio prevenire e renderli portatori di guasti più o meno accettabili per la collettività. La conoscenza di tali elementi passa attraverso l’esperienza acquisita sul territorio, attraverso lo studio e l’analisi delle cause, nonché prestando attenzione a recepire qualsiasi minimo indizio che potrebbe rendersi utile alla individuazione del rischio.
LA VALLE DELL’ALCANTARA C’era una volta, e ancora c’è, il fiume Alcantara: il “Fiume” per eccellenza così definito dagli antichi arabi, ha raffigurato, nel corso dei millenni, uno straordinario scenario naturale, dove l’uomo, sin dalla sua prima comparsa nella zona, ha ambientato le sue vicende umane e storiche. Il fiume Alcantara, inizia a scorrere dal versante meridionale dei monti Nebrodi a pochi chilometri da Floresta . Ai suoi 48 Km. di percorso fa da cornice un’ambiente tipicamente fluviale, dove non mancano le singolari fiumare, caratterizzate dalla presenza di materiale da trasporto sedimentario: ciottoli, ghiaie e sabbie. L’Alcantara che ha un bacino di circa 573 Kmq, e che per importanza è da considerare il secondo fiume dell’isola, dopo il Simeto, presenta i classici connotati del torrente che scorre nel periodo invernale e resta all’asciutto in estate. Il clima di questo bacino può considerarsi arido, con estati molto secche e inverni miti. Le sue acque, a volte quiete e a volte tumultuose nella discesa verso il mare Jonio, bagnano per circa 20 km le estreme pendici settentrionali dell’Etna; in territorio di Castiglione di Sicilia, esse creano delle “finestre[13]” paesaggistiche del tutto rare, diventano essenziali per l’incremento del reddito di tantissime famiglie della valle, che basano la loro economia sulle coltivazioni di agrumi, ortaggi e frutteti, dislocati sulle sponde coltivabili di questo fiume. Il controllo e la conservazione degli inestimabili valori ambientali che può esprimere un’area territoriale, vengono conseguiti con relativa facilità all’interno di settori ricadenti nei demani regionali o comunali, questo grazie al controllo capillare del territorio ad opera del Corpo Forestale addetto alla sorveglianza, in quanto aree non molto antropizzate, chiuse al traffico veicolare e orograficamente di agevole perlustrazione. Diventa invece alquanto complicato mantenere la protezione di quegli elementi naturali, quando viene istituita un’area protetta all’interno di un territorio fortemente antropizzato, sottratto agli interventi tradizionali che possono essere di natura agro-silvo-pastorale e che si mescolano con esigenze turistiche e ricreative che, se non idoneamente controllate, possono dimostrarsi dannosi per l’ambiente. Questo è il contesto primario della originaria istituzione della Riserva Naturale del fiume Alcantara, (decreto n° 970 del 10.06.91, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana, n° 49 del 19.10.91). Di seguito, con la Legge Regionale 3.5.2001, n° 6, art. 129, la Riserva dell’Alcantara viene ampliata territorialmente, tanto da assumere la denominazione di Ente Parco Fluviale dell’Alcantara. Questo territorio di cui ci stiamo occupando in questo capitolo, per i suoi valori di importanza naturalistica, estetica e scientifica, viene protetto, sottratto al libero intervento dell’uomo e posto sotto tutela dai poteri pubblici, al fine di garantire la conservazione e protezione delle varie formazioni vegetali, importantissime per il miglioramento del clima, per la protezione del suolo, dell’acqua e della fauna ivi esistente, al fine di renderne possibile l’esistenza. Tutto questo, però dovrà essere ancora regolato con appositi disposizioni legislative. L’auspicio è che tali direttive avvengano con il libero consenso delle popolazioni locali interessate, prestando molta attenzione affinchè i potenziali benefici derivanti da questa istituzione, possano essere acquisiti anche da chi vive nell’area, attraverso un turismo culturale e rispettoso dell’ambiente. Purtroppo, così come accaduto per altre aree protette, a volte questi propositi rimangono soltanto nelle nobili intenzioni. La presenza vegetazionale diventa alquanto complicata in particolare in alcuni tratti a causa della violenza delle acque. Tuttavia, la corrente rapida rende le acque molto ossigenate, così da favorire tutta una serie di specie vegetali che non potrebbero altrimenti vivere in ambienti diversi, quindi hanno contribuito a specializzare e selezionare la flora ed anche la fauna presente. In particolare negli slarghi di fiumara, i substrati geologici favoriscono l’insediamento di particolari tipi di vegetazione ripale. Sono presenti: il frassino (fraxinus), un albero a foglie caduche che cresce spontaneo nei luoghi umidi. Può raggiungere un’altezza di 35 metri. Il legno, duro e flessibile, veniva usato per la realizzazione di utensili e attrezzi vari. Le foglie vengono ancor oggi utilizzate per foraggio e per preparare un tonico. Secondo gli antichi romani, aveva facoltà di tenere lontani i serpenti, mentre era credenza arcaica norvegese che questa pianta avesse dato origine alla terra; il comunissimo oleandro (Nerium oleander), arbusto spontaneo tipico delle regioni calde e purtroppo velenoso sia nelle foglie che nei fiori presenti per tutto l’anno, dai diversi colori a seconda della varietà, dai rami sottili, può arrivare ad un’altezza di 5 metri; la ginestra comune (Spartium junceum) che si può facilmente riconoscere dal forte profumo che emana nel periodo estivo. Le formazioni di ginestre fiorite, formano delle macchie gialle che rendono alla vista una piacevole sensazione cromatica. Nell’area vi si trova anche il platano (Platanus orientalis), il quale sarebbe originario dei Balcani e dell’Asia minore. Si racconta che all’ombra delle sue fronde, Platone si cimentava con la sua filosofia e Ippocrate teneva le sue lezioni; il salice di Gussone (Salix gussonei) e il salice bianco (salix alba), che sono due piante che prediligono le fiumare e i terreni innondati dalle acque. Caratteristiche sono le leggerissime foglie grigio-argentato. Le loro radici sono utilissime al mantenimento dei pendii franosi La riproduzione di queste piante, avviene non di rado per talea; l’olmo minore (ulmus minor) che è un albero che può arrivare sino ai 30 metri e che ha le foglie doppiamente dentate ai margini, lucide dalla parte superiore e acuminate in punta. Nel periodo della fioritura si possono osservare i fiori sistemati in fascetti purpurei e quasi senza peduncolo. Il legno di questa pianta viene utilizzato per ardere e per la realizzazione di graticciate, in quanto resistente all’acqua; il pioppo (populus nigra) che è un’altra tipica pianta spontanea delle zone umide ma anche utilizzata per ornamento di strade e giardini, le foglie si presentano acuminate e dentellate ai margini; l’ontano comune (alnus glutinosa), riconoscibile dal suo maestoso portamento, che predilige i terreni umidi e tollera molto bene il freddo. Le foglie sono rotondeggianti e vischiose. Un’altra tipica pianta di questo stupendo paesaggio è la canna (Arundo donax) che colpisce il visitatore per le sue graziose spighe di fiori riunite in lunghe pannocchie. Infine, si riscontra la presenza diffusa di specie quercine come la roverella e persino la farnia. Lungo il corso del fiume Alcantara crescono tanti altri tipi di vegetazione igròfita che si abbinano ai muschi e alla vegetazione erbacea alquanto ricca. Molto diffusa è la presenza del cardo cretico (cirsium creticu), della menta (mentha suaevolens), della canapa acquatica (eupatorium cannabinum), del sedano d’acqua (Apium nodiflorum), della veronica acquatica (veronica anagallis-acquatica) e di tantissime altre specie. La vegetazione diventa alquanto sporadica dove il fiume si insinua tra le rocce basaltiche, che, a causa dell’erosione delle acque e dei processi evolutivi naturali, nel corso dei millenni hanno profondamente contrassegnato l’orografia e il panorama, creando gole e cascate. Il substrato geologico di formazione del letto del fiume in origine era costituito da rocce sedimentarie di varie ere geologiche: quaternaria, cenozoica e mesozoica. Oggi l’Alcantara, nel tratto di cui ci stiamo occupando e sino alla foce, è caratterizzato da banchi basaltici di origine vulcanica, erroneamente attribuiti, sino a pochi anni fa, ad un’unica eruzione originata da un vulcano eccentrico[14], situato a nord di Mojo Alcantara. Recenti studi, effettuati dalle università di Catania e Palermo, hanno accertato che non vi è alcuna connessione e continuità tra il fiume Alcantara e la colata del vulcanetto di Mojo Alcantara. Verosimilmente, tutto ebbe inizio circa 150.000 - 200.000 anni fa, quando probabilmente la Sicilia era abitata dall’Uomo di Neanderthal. Una tremenda eruzione vulcanica ebbe inizio da una zona boscosa a nord dell’Etna, a circa 800 metri di quota, nella località che, probabilmente, oggi possiamo identificare nel Monte Dolce, a poca distanza dalla frazione di Solicchiata. E’ possibile che in diversi tempi, ma con le medesime modalità, un fiume di fuoco scaturì dalle viscere della terra, distruggendo con veemenza quanto si trovava sul suo passaggio, e scese con grande furia verso valle e, continuando nella sua sinistra corsa, dopo circa 5 chilometri si versò nell’alveo dell’antico fiume Alcantara. Le copiosissime colate, particolarmente fluide, coprirono il fiume. A contatto con l’acqua si raffreddarono e si raggrinzarono più lentamente, si contrassero e crearono quelle caratteristiche colonne prismatiche che ancora oggi testimoniano la potenza di questa tremenda colata. Tanta era la virulenza di scorrimento dovuta all’alta temperatura, che con grande impeto fiumi di lava seguirono tutto il percorso dell’Alcantara segnandolo perennemente e scesero sino al mare, dove formarono un promontorio magmatico, oggi chiamato Capo Schisò. Ovviamente tale ipotesi, seppur ben supportata da elementi e studi scientifici eseguiti sul posto e sulla struttura lavica, non può considerarsi certa, a causa del tantissimo tempo trascorso. Il fiume scorre e si insinua nella roccia basaltica creando delle figure veramente particolari. La formazione di vere e proprie “urne”[15], di profonde gole, di strapiombi, di prismi basaltici, di cascatelle e di forme contorte che nella loro staticità mutevole rappresentano un’era arcaica, ancora oggi testimonia quando con questo territorio la natura sia stata benevola. Conosciutissime sono le “Gole dell’Alcantara”, meta di tantissimi escursionisti italiani e stranieri, i quali restano veramente affascinati da questa straordinaria opera architettonica che soltanto la natura ha saputo progettare. Il fiume, nel corso dei millenni, ha continuato la sua perenne discesa verso il mare, ha scavato in pochi metri di larghezza il suo stretto alveo sfidando la grande colata ed ha consumato per almeno 40 metri di profondità quel poderoso colonnato lavico, che pone la sua conformazione a simbolo di grandezza della natura stessa. Il lavoro di erosione della colata ad opera dell’acqua, nel suo scorrere plurimillennario, ha reso il percorso del fiume nel territorio di Castiglione di Sicilia, quasi una meraviglia della natura. Certamente non può essere rappresentata in poche righe la meraviglia del luogo e crediamo che ognuno di tutti noi dovrebbe visitarlo almeno una volta nella vita, così da rendersi conto quanto non bastino le parole a descriverlo. L’attrattiva turistica delle “Gole dell’Alcantara”, in atto è prerogativa unica del versante di Messina malgrado ci si renda conto, con ampio e pressochè univoco convincimento, che le caratteristiche orografiche dell’area possono considerarsi di grande suggestione e ricche di fascino anche dalla parte di Catania e cioè nel territorio di Castiglione di Sicilia, questo dovuto in particolare all’integrità orovegetazionale che esse presentano. Ovviamente non è compito di questo scritto manifestare una visione che può sembrare campanilistica che riguardi la collocazione geografica, la destinazione di utilizzo, il circuito turistico o l’orientamento dell’ente territoriale di gestione[16], elementi che di solito concorrono alla valorizzazione di un particolare ambiente naturale. Questo percorso virtuale è ostruito da varie componenti di natura burocratica, politica e sopratutto naturalistica. Risolte e superate queste problematiche, e’ auspicabile che si esterni un atteggiamento finalizzato al riconoscimento, alla promozione e alla fruizione del sito che non può essere considerato come parziale tempio della natura o privilegio di pochi. Il fiume Alcantara è sempre stato crocevia delle tantissime civiltà e culture che sin dai tempi più remoti, si sono succedute nella nostra isola. Esso è sempre stato la via maestra per tutti i popoli che per svariati motivi, nel corso dei secoli, si sono voluti spingere all’interno della Sicilia, addirittura sino alla parte occidentale e a Palermo, rivestendo un’importanza di grande rilievo per il fattore commerciale, ma anche per gli straordinari eventi che si sono succeduti nella nostra isola sin dall’antichità più remota. La Riserva Naturale del fiume Alcantara, oltre ad offrire al visitatore numerosissimi spunti di carattere naturalistico e paesaggistico, custodisce da millenni rare testimonianze archeoantropologiche presenti in alcuni siti che arricchiscono il territorio di storia antica che ci proviene dal lontano paleolitico, quando probabilmente nuclei umani si stabilirono sulle sponde del fiume. Oggi la ricerca paleoantropologica è molto attiva ed in continua evoluzione. I ritrovamenti di questi ultimi tempi dimostrano che la presenza sulla terra di un nostro progenitore risale a circa 4 - 6 milioni di anni fa. Il materiale archeologico preistorico, rinvenuto sul territorio isolano a partire dai primi anni del 1700, non può ritenersi sufficiente per stabilire con certezza la presenza dell’antenato dell’Homo Sapiens in Sicilia. E’ invece probabile, come asseriscono alcuni studiosi, che l’uomo arrivò sulle nostre terre intorno ad un milione di anni fa, quando aveva già invaso le zone temperate dell’Europa, anche se lo studio di particolari elementi fa pensare che almeno durante il paleolitico inferiore (1.000.000 di anni fa), la terra siciliana avrebbe potuto essere collegata via terra con la costa africana, pertanto tale flusso potrebbe essere arrivato direttamente dall’Africa. In quei tempi l’uomo abitava sia nelle grotte che all’aperto, in prossimità dei corsi d’acqua su depositi alluvionali. Per questo, può ritenersi verosimile che sulle sponde dell’Alcantara vi siano stati dei piccoli insediamenti arcaici dai limiti ben definiti. In seguito con la formazione dell’edificio vulcanico e il massiccio riversamento delle lave nell’Alcantara, questi nostri antichi progenitori, si spostarono più a monte e, suddivisi in piccole tribù, andarono ad abitare alcune zone con particolari caratteristiche orografiche come, ad esempio i siti in territorio del comune di Castiglione di Sicilia e precisamente il complesso arenario di Pietramarina, che emerge da antiche colate laviche, l’altipiano di Orgale, la rocca di Santa Maria della Scala, le contrade di Balsamà e Chiappazza, dove la presenza di alcuni simboli preistorici si fonde e confonde con misteriose “truvature” locali che parlano di tesori nascosti. L’osservazione di questi siti ci riporta indietro nel tempo per parecchie migliaia di anni e ci cala nello spaccato antropologico del paleolitico inferiore, in piena età della pietra. Allora l’attrezzatura era composta soltanto da ciottoli opportunamente sagomati e schegge di pietra che servivano da armi. Le grotte erano il solo rifugio contro tutto ciò che la natura offriva di sgradevole o temibile. Su queste aree i nostri antichi avi trascorrevano la loro vita comunitaria, cacciavano e svolgevano i loro riti tribali, così come ci testimoniano ancora oggi i resti di costruzioni sepolcrali nella pietra, singoli o collettivi e monumenti megalitici costituiti da pilastri di pietra rappresentanti raffigurazioni falliche o simboli religioso. Con il passare del tempo si incominciò a formare nella comunità un’organizzazione sociale di tipo patriarcale, composta da poche famiglie guidate ognuna dall’individuo più anziano che esercitava il comando e rappresentava la comunità nel consiglio generale che includeva altre famiglie. Il capo famiglia veniva onorato sino alla morte, quando veniva sepolto singolarmente con alcuni suoi oggetti particolari. Testimonianza di questa circostanza è la scoperta e lo studio della grotta funeraria rinvenuta in contrada Marca, agro di Castiglione di Sicilia, dove oltre a vari resti di ossa umane, è stato scoperto anche uno scheletro seppellito singolarmente con alcuni oggetti appartenenti presumibilmente al defunto. Stranamente oggi questa storica testimonianza di cultura popolare arcaica è chiusa al pubblico, in attesa di momenti migliori. Ovviamente la descrizione che stiamo tentando di ricostruire è immaginaria, anche se verosimile. Non ci sono prove documentabili di quanto abbiamo affermato. Tuttavia, questi reperti che ci ha tralasciato il tempo stimolano alla riflessione e ci spingono a fare delle deduzioni abbastanza valide e ben argomentate. Essi vanno visti come intima essenza del territorio stesso, che ebberoi origine dall’arcaica cultura preistorica dei nostri progenitori. Antichi greci, latini, bizantini, arabi, normanni, svevi e angioini, aragonesi e borboni, tutti hanno conosciuto il fiume Alcantara, le bellezze delle sue gole, la fertilità delle sue colline degradanti e ricche di vita agreste. Tutti ci hanno lasciato, quali segni della loro presenza, incontrovertibili prove di grande rilievo culturale: intere città sepolte come il sito greco della contrada Acquafredda, templi religiosi come la famosa Cuba di contrada Santa Domenica, la quale per la sua importanza culturale ed ambientale, fu dichiarata monumento nazionale il 31.8.1909. La Cuba è una chiesa bizantina costruita tra l’VIII e l’XI secolo, di grande pregio archittetonico, riveste grande rilievo nel panorama archeologico dell’area a testimonianza della raffinata arte bizantina, introdotta in Sicilia dai numerosi monaci bizantini, i quali perseguitati nella loro terra natìa orientale da Costantino V, furono costretti a cercare riparo in occidente. La valle del fiume Alcantara assorbì una gran parte di questo massiccio flusso emigratorio proveniente dalle terre di Bisanzio[17], che evidentemente portò in quest’area, come in altri luoghi dell’isola, i segni dell’arte cristiana, fiorita a Bisanzio verso il IV - V secolo, e diffusa in tutti gli altri territori dell’impero romano, sino al XV secolo, unitamente ad altre manifestazioni di arte quali la lavorazione della seta, dell’oro, del legno e della ceramica. Per scoprire l’interesse antropologico e culturale di queste terre, certamente non bisogna andare troppo a ritroso nel tempo. [1] Eccezionale esemplare di circa 3 - 4 secoli di età, è “u zappinazzu”, presente all’interno della pineta di Linguaglossa. [2] Così chiamata da sempre dalle popolazioni locali, per l’uso che ne veniva fatto ai fini della rapida accensione di fuochi. [3] Deserti vulcanici e lave, così chiamate dagli antichi latini. [4] Preferisce gli ambienti mediamente umidi e siccitosi. [5] Porzioni di ramo lignificato di lunghezza variabile da cm 30 a cm 80, provvisti di gemme che interrate emettono radici e rami così da diventare piccole piantine. [6] E’ amante della luce [7] Pelosi. [8] La rinnovazione è basata sulla facoltà che ha la pianta di emettere polloni dal fusto, dai rami e dalle radici. [9] Marcescenti, ossia persistono sui rami anche d’inverno e li perdono a poco a poco. [10] Per gli addetti ai lavori significa la condizione ideale di equilibrio tra clima e sito dove si trova il bosco. [11] porzione di terreno dove si notano consistenti accumuli di escrementi che testimoniano la presenza quasi stabile del coniglio. [12] Diffidare sempre dei consigli avuti da personale inesperto o da quanto visto in televisione o cinema. Pertanto non bisogna assolutamente incidere la ferita e succhiare il veleno, tantomeno legare strettamente la parte colpita dal morso. Il veleno della vipera non agisce in modo fulmineo e lascia tranquillamente il tempo di arrivare in qualsiasi pronto soccorso (almeno 2 ore). E’ importante mantenere la calma. [13] Scorci visivi di rilevante valore estetico [14] Il vulcanetto di Mojo Alcantara, emerso direttamente dal terreno sedimentario, non avente alcuna connessione con l’Etna.La fuoriuscita di alve è modesta. [15] Formazione di vasche di acqua, dove nel periodo estivo viene praticato il nuoto. [16] Comune di Castiglione di Sicilia [17] A partire dal 330 d.C. fù chiamata Costantinopoli e di seguito nel 1929 Istambul. |