Questo albero appartenente alla famiglia delle pinaceae, oltre ad
essere una delle piante più resistenti e diffuse del panorama
vegetazionale etneo, è considerato come una pianta di particolare
interesse naturalistico, scientifico e,
in passato, anche economico.
Gli aghi del pino laricio sono molto abbondanti, accuminati,
leggermente ricurvi e di colore verde scuro. I coni sono di color
giallo dorato e di forma ovoidale terminanti a punta e misurano circa
8 cm. Il portamento eretto, può essere considerato
mutabile, in quanto la sua chioma può essere piramidale o ad
ombrello quando la pianta è più matura ed è vegetante in zone
battute dal vento. Il tronco mette in evidenza una corteccia
grigio-scura, a seconda delle condizioni ambientali, e si
fessura profondamente con l’età, creando delle grosse “squame”.
La chioma è stretta in rapporto al tronco a causa dei suoi rami
arcuati verso l’alto e del fogliame abbastanza lungo. In particolari
condizioni geopedologiche, il pino laricio raggiunge anche i 40 metri
di altezza e riesce a vegetare anche per alcuni secoli. Verosimilmente
l’esistenza del pino laricio presente sull’Etna, risale a circa
350.000 anni fà. Secondo quanto scrive A. Giacobbe sul suo “
Ricerche ecologiche e tecniche sul Pino Laricio Pois e sul Pinus
Austriaca Hoess “ del 1937, si presume che il pino laricio,
condividendo il territorio, appunto
con le specie quercine, arrivò
sull’Etna alla fine del quaternario, quando dopo avere
superato il mare, in quanto già allora la Sicilia era separata dalla
Calabria dallo stretto di Messina, trasmigrò dall’Aspromonte, che
era l’areale di questa specie vegetale più a sud presente in
Italia, ed approdò sull’Etna.
Anticamente il suo legno veniva utilizzato per la costruzione di navi
e attrezzi da lavoro. Il legname era utilizzato altresì per la
realizzazione di tetti e travi portanti.
L’apparato radicale del pino laricio è molto sviluppato ed esteso,
sempre alla ricerca di elementi nutritivi utili alla sua vita. Per
questo, riesce a rompere e spaccare anche le rocce che si pongono sul
suo cammino come ostacolo alla sua crescita, riuscendo nel difficile
compito di colonizzare anche le lave affioranti e pertanto svolgere un
compito utilissimo ai fini dell’equilibrio biologico del territorio
interessato.
Le sue radici (Deda)_ ricche di resina, vengono altresì utilizzate
come combustibile per la loro alta e rapida infiammabilità.
La pratica della resinazione è stata operata nella pineta di
Linguaglossa, sin quasi negli anni sessanta. Pratica ultimamente accantonata solo ed unicamente
per motivi di scarsa economicità. A testimonianza di questa usanza,
restano ancora ben visibili, sui tronchi dei pini adulti, le
caratteristiche incisioni a “lisca di pesce” praticate sulla
pianta per l’estrazione della resina che, subito dopo, veniva
trasformata in pece, diluente, vernice ed altro.
La pratica di resinazione in
fase preliminare, consisteva nel predisporre un’area dove
vegetavano le piante adulte da resinare, ( campo base). Su tali piante
veniva effettuata la scorzatura, l’affissione delle tabelle
indicatrici e l’applicazione dei vasetti che dovevano contenere la
resina. Di seguito, finiti gli adempimenti preliminari, venivano
effettuate le incisioni con criteri che potevano variare a secondo
degli anni. Mediamente, attraverso l’utilizzo di attrezzi specifici
(raschietti e asciotti), venivano praticate n° 2 incisioni alla
settimana. Considerato che il periodo di resinazione interessava
mediamente il periodo di Giugno-Ottobre, appare evidente che su ogni
pianta a fine trattamento, si potevano contare circa 40 incisioni
che sortivano una quantità media (a secondo delle dimensioni
della pianta) di Kg.2.500. Anche il prezzo della resina variava, a
secondo della qualità e richiesta di mercato, tra le £.65 e £. 75
al chilogrammo. La raccolta e la pesatura per ogni pianta, avveniva
con cadenza mensile e addirittura in alcuni anni, ogni 15
giorni.
L’arte della resinazione si è sempre intrecciata con
la storia del bosco Ragabo e in particolare attraverso i secoli
si è sempre allacciata con le vicissitudini del popolo linguaglossese,
tanto da influire in modo determinante proprio alla nascita e sviluppo
del paese stesso. Infatti, la resinazione, secondo lo
studioso Antonio Filoteo degli Omodei, fù introdotta nel bosco
Ragabo, da alcuni nuclei familiari liguri e lombardi, arrivati
originariamente sul territorio di Castiglione, i quali verso il
1000-1100, prima dell’arrivo a Linguaglossa di re Ruggero II°
(1145), lasciarono il loro feudo di appartenenza
e si stabilirono
all’interno di questa grande selva,
dove forti delle loro originarie tradizioni, incominciarono ad
estrarre e lavorare la resina, nonchè presumibilmente, unitamente
alle popolazioni locali, contribuirono appunto, alla formazione della
piccola comunità operosa di Linguagrossa, così chiamata a causa del
parlare rozzo dei liguri, origine questa non condivisa da alcuni
studiosi, che traeva il proprio sostentamento dal bosco e sin da
allora sempre identificata con esso.
Nel suo “ AETNAE TOPOGRAPHIA “ del 1591, l’Omodei così
riportava : “...sono nei boschi di questa regione alti
& larghi faggi, &
più lunghi & grossi pini, onde
gli artefici lavorano la ragia, la pece & la trementina,
& altri medicinali licori...e ancora...furono quelli lombardi in
mongibello i primi, i quali scopersero che vi si poteva a bell’agio
lavorar la pece, & i linguagrossesi in fin hoggi attendon a costal
mestiere... “
Tommaso Fazello nel 1749, rimarcava
l’intreccio la resinazione e il bosco Ragabo di Linguagrossa
che “...è famosa per
cagion di quel bosco, ove sono gli alberi che fanno la pece...” (
dal manoscritto
consuetudini di Linguaglossa - Archivio di Stato di Catania ).
Qualche decennio più tardi e precisamente nel 1793, riferitosi alla
pineta e alla resinazione, lo studioso Ferrara, in
“Storia generale dell’Etna “,
riportava (... una foresta immensa, copre all’intorno la
seconda regione o i fianchi dell’Etna, sino a poco dopo la metà
della sua altezza e che chiamasi anche regione selvosa ; presenta tale
estensione la più vigorosa e la più annosa vegetazione “.
Vincenzo CRIMI
Commissario Superiore del Corpo Forestale